«Il lavoro è per l’uomo, non l’uomo per il lavoro». Non è uno scioglilingua, ma l’architrave su cui poggia la Dottrina Sociale della Chiesa. Parole scolpite da Giovanni Paolo II nella Laborem exercens, pubblicata nel settembre 1981, nel 90º anniversario della Rerum novarum (e troppo frettolosamente archiviata dai più come una sponda offerta al sindacato polacco Solidarnosc). L’Enciclica di Wojtyla, che avrebbe ispirato tutti i documenti di Dottrina sociale dei suoi successori, segnò un punto di non ritorno nella concezione stessa del lavoro e del suo significato per le donne e gli uomini di oggi. Il 19 marzo del 1982, pochi mesi dopo la pubblicazione dell’Enciclica, Giovanni Paolo II, in visita allo stabilimento Solvay di Livorno (la stessa azienda per cui a vent’anni aveva lavorato in Polonia prima di entrare in seminario), parlò del futuro del lavoro, mettendo in risalto «l’evidente ambivalenza» dell’impatto di una tecnologia sempre più sofisticata nell’industria. Che se «da un lato ha alleggerito la fatica dell’uomo ed ha moltiplicato i beni economici attraverso una produzione massiccia; dall’altro, però, con la meccanizzazione dei processi produttivi essa tende di fatto a spersonalizzare colui che esercita il lavoro togliendogli ogni soddisfazione ed ogni stimolo alla creatività e alla responsabilità. Nell’attività industriale si incontrano in effetti due realtà: l’uomo e la materia, la mano e la macchina, le strutture imprenditoriali e la vita dell’operaio. Chi avrà la preminenza? Diventerà la macchina un prolungamento della mente e della mano creatrice dell’uomo, oppure questi soggiacerà ai meccanismi impellenti dell’organizzazione, riducendosi ad agire come un automa? La materia uscirà nobilitata dall’officina, e l’uomo invece degradato? Non vale forse di più l’uomo che non la macchina ed i suoi prodotti?».
Pensando che sono parole di quarant’anni fa, è quasi da non credere. Perché sembra il ritratto di quello che vediamo davanti a noi. E che non è di là da venire, ma è già attualissimo. Purtroppo. Una realtà che vede disoccupazione e sottoccupazione, salari ridicoli, che negano il futuro ai giovani. Tutte situazioni che Francesco ha sempre, continuamente denunciato, e che è tornato a denunciare qualche giorno fa ricevendo in udienza il Movimento Cristiano dei Lavoratori, ribadendo che «il lavoro attraversa una fase di trasformazione che va accompagnata. Le disuguaglianze sociali, le forme di schiavitù e di sfruttamento, le povertà familiari a causa della mancanza di lavoro o di un lavoro mal retribuito sono realtà che devono trovare ascolto nei nostri ambienti ecclesiali. Sono forme più o meno di sfruttamento: chiamiamo le cose per nome. Vi esorto a tenere mente e cuore aperti ai lavoratori, soprattutto se poveri e indifesi; a dare voce a chi non ha voce; a non preoccuparvi tanto dei vostri iscritti, ma di essere lievito nel tessuto sociale del Paese, lievito di giustizia e di solidarietà». Dalla parabola del Vangelo di Matteo, ha aggiunto Papa Francesco, degli operai chiamati alle diverse ore del giorno «impariamo che ogni stagione della storia, come ogni ora della giornata, è tempo propizio per dare il proprio contributo e cercare di offrire una risposta. Nessuno deve sentirsi escluso dal lavoro. Non manchi il vostro impegno per promuovere il lavoro femminile, per favorire l’ingresso dei giovani nel lavoro, con contratti dignitosi e non da fame, per salvaguardare tempi e spazi di respiro per la famiglia, per il volontariato e per la cura delle relazioni». Sono queste le emergenze di oggi.
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