Domenica scorsa, in questo spazio, azzardavo una classificazione di come la blogosfera ecclesiale stesse sviscerando il tema “Fede, Chiesa e Coronavirus”. Segnalavo anche l’alta percentuale dei post che vi erano dedicati tra quelli complessivamente passati sullo schermo del mio notebook: quasi il 50%, oggi ulteriormente aumentata per evidenti motivi. Ma se scorro i post degli “amici digitali” che si rincorrono sul mio profilo Facebook, l’epidemia è praticamente il loro unico oggetto. La cosa buona è che emergo da tali abbuffate di pagine dei diari altrui con un forte senso di consolazione, del quale sono testimoni i “like” di approvazione che ho cliccato, per una volta, senza risparmio. Apprezzando la serietà di chi non minimizza la gravità della situazione e di chi sottolinea il dramma solo là dove effettivamente esso è tale. Ammirando l’impegno di raccontare la propria personale risposta all’emergenza nella speranza che essa sia valida anche per qualcun altro. Sorridendo quando qualcuno formula o rilancia una battuta intelligente, di quelle che fotografano la situazione meglio di tanti lunghi discorsi, e perdendomi volentieri in qualche testo più lungo, se serve a non liquidare con una battuta banale un aspetto particolarmente complesso di ciò che stiamo vivendo. Ma soprattutto avvertendo, nell’insieme, un sentimento di prossimità, un desiderio di aiutarci – per le vie della Rete – che è esattamente l’opposto del «distanziamento sociale» che sappiamo di dover perseguire stando chiusi in casa. E che immagino si nutra di quell’ispirazione cristiana che tanti, nel piccolo gruppo dei miei amici digitali, condividono. Come Paolo De Martino – sposo e padre, diacono, insegnante di religione, saggista, blogger, responsabile dell’apostolato biblico a Torino – che in uno dei suoi ultimi post incoraggia i «cari amici» esortandoli a una «visione che non resti inchiodata al nostro piccolo universo ma che assuma le dimensioni della speranza cristiana».
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