In un mondo in cui tutto viene messo in discussione, tra le poche posizioni dominanti che finora hanno dato prova di incredibile resilienza c’è quella del dollaro. La valuta americana resta quella di riferimento per tutto il pianeta, nonostante il progressivo ridimensionamento della potenza economica e politica statunitense di fronte all’ascesa degli (ex) Paesi emergenti: Cina, India e Russia in testa. Non a caso al meeting dei Brics che si è tenuto a Kazan in settimana – dove Putin, Xi Jinping e compagni hanno detto e ridetto di voler integrare maggiormente le proprie economie per far valere di più il 37% del Pil di cui sono depositarie – si è parlato anche della possibilità di individuare una sola valuta di riferimento, proprio con l’obiettivo di ridimensionare il dominio del dollaro.
La questione sta particolarmente a cuore a Mosca. Qui il rublo ha pagato il prezzo delle sanzioni economiche degli ultimi anni, e per questo vede in una valuta terza lo strumento migliore per difendersi da quelle che potrebbero arrivare in futuro. Putin ha fatto cenno al tema più volte anche durante gli incontri di Kazan, ma alla fine non è comparso nella dichiarazione finale, dove ci si è limitati a un incoraggiamento all’uso delle «valute locali per le transazioni tra i Brics e i propri partner commerciali».
Non è un caso, probabilmente. Allentare il dominio della valuta americana non è facile, e a molti non conviene neanche tanto: il dollaro sta all’economia del mondo come l’inglese sta a chi ci abita, e avere a disposizione una sorta di valuta globale che può essere spesa dappertutto senza incappare in controlli o altri ostacoli fa comodo a tutti, soprattutto alle potenze emergenti che devono far crescere i propri affari. Stando ai dati della Federal reserve, la banca centrale americana, oggi il 60% delle riserve di valuta che fanno capo agli Stati e ai privati è ancora in dollari, appena il 7% in meno di vent’anni fa. E, dicono gli stessi dati, quasi il 90% delle operazioni in valuta estera vedono coinvolto il biglietto verde. In pratica, il dollaro ha saputo difendere le posizioni molto più del Paese che lo esprime: a fine anni ’80, Washington era ancora creditore netto di quasi tutti gli altri Stati, oggi invece gli americani devono al resto del mondo 20 miliardi in più di quanto è loro dovuto, ovvero il 70% del Pil.
Certo qualcosa è destinato a cambiare. Secondo
un rapporto di Omfif, centro studi basato a Londra, i gestori delle riserve delle banche centrali intervistati prevedono che la quota del dollaro nelle riserve globali scenderà a circa il 55% in 10 anni. E se ci spostiamo al 2050, si potrebbe scendere al di sotto del 50%. Ma la progressione delle valute concorrenti è lenta: l’euro è stabile al 20%, yen giapponese e sterlina inglese al 5%,
più brillanti ma su livelli ancora marginali quelle che il Fondo monetario internazionale considera “riserve non tradizionali”, tra cui il dollaro australiano, il dollaro canadese, il won sudcoreano, il dollaro di Singapore e le valute nordiche. Caso a parte quello di Pechino, dove il renminbi fatica a farsi largo tra le riserve ma è valuta sempre più utilizzata per le transazioni, almeno da parte dei cinesi: a metà del 2024, il 27% del commercio totale di beni della Cina è stato regolato in renminbi, rispetto al 17%. Ciò significa che la Cina sta utilizzando la propria valuta per regolare poco più di 50 miliardi di dollari in più al mese rispetto a inizio 2022.
Volumi in crescita, dunque, ma ancora marginali. Ecco perché
Xi Jinping almeno sulle ambizioni valutarie ha preferito frenare l’amico Putin. Per ora, stando alla dichiarazione di Kazan, dovrà accontentarsi di una cooperazione più stretta sulle materie prime, dove si studierà anche il varo di una piattaforma di scambio riservata ai Brics o sui pagamenti. Per il resto, viva il dollaro e – addirittura – viva il Fondo monetario internazionale, dove i Paesi emergenti lavoreranno per ulteriori riforme ai meccanismi di funzionamento.
© riproduzione riservata
© Riproduzione riservata
ARGOMENTI: