Si dice che le sventure e le malattie aprano gli occhi sulla realtà della vita. Perché l'attuale sciagura epidemica, con le tragedie umane e i drammi sociali che comporta, non dovrebbe insegnare niente ai giovani? Spesso il tono con cui si parla di loro rivela qualcosa di dolciastro e di paternalisticamente protettivo, come se il primo dovere degli adulti fosse quello di preservare nei giovani la loro "giovanilità". Come se il loro frequente, abitudinario chiudere gli occhi su quello che nella realtà sta avvenendo, dovesse essere protetto da ogni rischioso contatto con verità che costringono a pensare e magari a cambiare sé stessi, a crescere. La spensieratezza e la distrazione sono riposanti, rilassanti, come si dice; ma non possono essere il centro e il sale della vita. I giovani hanno bisogno di andare a scuola. Ma se in situazioni gravi le scuole devono essere parzialmente chiuse, credo che sia inutile lamentarsi e basta. Meglio pensare a che cosa è la normalità scolastica, a che cosa è imparare, a come e perché farlo. Non si impara soltanto come studenti frequentanti, si impara anche come autodidatti che cercano di capire, che leggono, riflettono, discutono in situazione reale ciò che offre un patrimonio culturale accumulato per secoli e millenni. Il passato e il suo valore ci si rivela quando il presente spinge e costringe a scoprirlo, perché ne sentiamo il bisogno, perché lo sentiamo necessario. Qui gli insegnanti (anche a distanza), i genitori e i familiari (perché in presenza) possono e dovrebbero avere una funzione preziosa e orientare gli studenti a studiare anche in condizioni insolite. Come sappiamo, l'insolito è stimolante, è una sfida alle abitudini. Se c'è una tipica, cronicizzata carenza nella scuola di sempre, nella normalità e ritualità scolastica, è che gli studenti fanno pochissime esperienze autenticamente culturali, cioè personali. Non si può sottovalutare, ma neppure idealizzare la scuola "in presenza" come era prima. Vanno anche ritrovate le ragioni, le motivazioni (come dicono i pedagogisti) alla ricerca del sapere, allo studio e soprattutto alla lettura, che la routine scolastica troppo raramente incrementa e incoraggia. Perché non trasformare l'uso compulsivo dei "social" in una pratica di scambio culturale impegnato? E la vita familiare e domestica? Si parla, si discute, si riflette, si legge in famiglia? E le amicizie, così importanti nell'adolescenza, di che cosa si nutrono? Non sarebbe questo il momento buono per fare esperimenti audaci con la nostra vita quotidiana? Se non c'è cultura nella vita quotidiana, non c'è scuola che riuscirà a far prendere sul serio l'insegnamento e l'apprendimento.
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