Molti sono stati i romanzieri che hanno vissuto in prima persona l’esperienza della guerra. E che da quella violenza efferata hanno tratto insegnamenti umanissimi, raccontando vicende in senso poetico che ancora ci accompagnano nel nostro immaginario. Un nome su tutti, Mario Rigoni Stern e il suo Il sergente nella neve.
Anche Phil Klay, americano di Westchester, ha fatto il soldato, in Iraq, tra il 2007 e il 2008. E ha raccontato la sua multiforme, tormentata esperienza di marine in un romanzo, Fine missione (Einaudi), vincitore del National Book Award e che impressionò l’allora presidente Barack Obama. In quelle pagine Klay, cattolico, non rifugge anche dal narrare alcune vicende con l’occhio del credente. Così fa parlare, ad esempio, un cappellano militare ai suoi soldati: «Forse voi non pensate che valga la pena di provare a capire le sofferenze di quel padre iracheno», la cui figlia era stata salvata dai militari americani dopo un incidente domestico, ma che al contempo manifestava tutta la sua rabbia verso l’occupante statunitense. «Ma essere cristiani» continua il cappellano, prendendo spunto da quel padre «significa che non possiamo guardare un altro essere umano e dire: “Lui non è mio fratello”». Verità che resta ostinata nella sua profondità.
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