«Il mio sogno più grande? Rivedere l’Amazzonia ecuadoriana colorata e piena di vita come prima, nuotare nei fiumi senza preoccupazioni, respirare aria pura che non ci provochi malattie, bere acqua pulita senza contaminazioni, mangiare cibo sano». Leonela Moncayo scrive ad Avvenire su WhatsApp: nell’immagine del suo profilo indossa un costume verde e oro, come da parata: parlare con lei non è stato possibile, a causa di continue interruzione di linea. Lei ha 14 anni ed è la capofila di un gruppo di nove niñas che hanno fatto causa al governo dell’Ecuador per la mancata protezione del territorio.
Ci sono oltre 400 “camini” di combustione che bruciano all’esterno le emissioni in eccesso dal sottosuolo (in spagnolo mecheros) nel nord amazzonico dell’Ecuador; quando parla del veleno che affligge la sua gente (il gas flaring di routine rilascia anche metano, un gas serra ancora più dannoso della CO2), Leonela è molto seria: «Sogno che la terra torni a essere produttiva e ad avere molte sostanze nutritive e che le specie di animali e insetti tornino a essere abbondanti per non estinguersi. Sogno che i soffioni della morte non esistano più, perché in questo modo contribuiremmo a diminuire il riscaldamento globale e il cambiamento climatico e non vedremmo più persone ammalarsi di cancro».
Leonela Moncayo all'audizione al Parlamento dell'Ecuador - Amnesty International
Leonela ha lunghi capelli lisci scuri, occhi intensi e spesso tristi. Il suo impegno ambientalista nasce in famiglia: è figlia di Silvia e Donald Moncayo, membri dell’Unione delle persone danneggiate (afectados) dalla Chevron-Texaco. Nel luglio 2021 le nove studentesse, supportate dall’Unione, avevano ottenuto una sentenza della Corte di Giustizia della provincia di Sucumbìos (al confine con Colombia e Perù), che obbligava lo Stato a eliminare gradualmente le torce di gas, a partire da quelle situate vicino alle aree popolate, e a pagare un risarcimento alle comunità colpite.
Poco o niente è stato fatto da allora, così Leonela con altre tre compagne il 21 febbraio scorso hanno ottenuto una audizione in Parlamento. All’appuntamento «siamo rimasti sorprese nel constatare che non tutti i ministri erano presenti: la presidente di Petroecuador (la compagnia petrolifera nazionale) e l’allora ministra dell’Energia e delle Miniere Andrea Arrobo hanno detto che avevano già rispettato la sentenza solo per aver eliminato un bruciatore, e ci hanno accusato di essere manipolate. Noi abbiamo ribattuto che non era vero. Si sono presi gioco di noi amazzonici».
Cinque giorni dopo un ordigno è esploso fuori casa sua, alla periferia di Lago Agrio, al centro della foresta pluviale ecuadoriana amazzonica. La sua famiglia ha rifiuto la protezione statale e Amnesty ha portato il caso di Leonela all’attenzione internazionale. Ma la ragazza, che dice di essersi ispirata a Greta Thunberg, non si arrende: «Continueremo a marciare a Quito, a fare sit-in davanti alla Corte costituzionale per chiedere il rispetto della sentenza – scrive in chat ad Avvenire -; continueremo a raccontare tutta la verità, e come ci uccidono e inquinano l’ambiente giorno dopo giorno».
A 14 anni, cosa ti spinge a questo impegno? «Sono cresciuta con le torce della morte vicino a casa mia e so cosa si prova a vivere con il pericolo di bere acqua contaminata, respirare aria non più salubre e la tristezza di non poter fare il bagno nel fiume sotto casa. Sono stati anche anni di violazione dei diritti, di inquinamento e di distruzione della natura e dell’ambiente ed è ora di dire basta a tanti abusi da parte del governo ecuadoriano e delle compagnie petrolifere».
Come si concilia la necessaria spensieratezza di una teenager con l’attivismo per l’ambiente? «Per avere una adolescenza felice devo preoccuparmi del mio futuro e fissare degli obiettivi. Devo pretendere il rispetto dei miei diritti e della natura che mi circonda, perché se non avremo una vita dignitosa e senza inquinamento cosa ne sarà del mio futuro e di quello delle prossime generazioni?».