Le ragioni del rinvio del voto a primavera 2026
domenica 6 aprile 2025
Veneto, Toscana, Marche, Campania e Puglia sono le Regioni a statuto ordinario che dovrebbero andare alle urne nel prossimo autunno per eleggere i rispettivi vertici. Perché dovrebbero? Le scadenze degli organi istituzionali non sono fissate per legge? La questione è diventata oggetto di dibattito politico perché c’è una forte spinta – soprattutto da parte di alcuni “governatori” in scadenza – a rinviare il voto alla primavera del 2026. Se ne parla già da molto tempo e l’argomento ha trovato nuovo slancio quando, nello scorso dicembre, una circolare del Viminale sulle elezioni comunali ha chiarito che il venir meno dell’emergenza Covid avrebbe consentito il ritorno alle regole ordinarie e quindi si sarebbe andati a votare tra il 15 aprile e il 15 giugno, come prescrive la storica legge 182 del 1991. Siccome però nel 2020 e nel 2021, causa pandemia, per i Comuni si era votato in autunno, il ripristino delle regole avrebbe implicitamente comportato uno slittamento temporale in avanti. Ma si trattava di un ritorno alla normalità, non di un rinvio, e per di più riguardante i Comuni, non le Regioni, che hanno uno statuto giuridico profondamente diverso. Eppure, per analogia, il dibattito ha ripreso quota. Il tema ha avuto un nuovo sussulto a fine marzo in occasione della visita a Venezia del ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, per la firma di un protocollo d’intesa sulla sicurezza. A fare gli onori di casa Luca Zaia, uno dei “governatori” più attivi sul fronte del rinvio che, tra l’altro, gli consentirebbe di restare in carica durante le olimpiadi invernali Milano-Cortina. Piantedosi ha ricordato che le Regioni hanno autonomia in materia elettorale e in Veneto è prevista per il voto la “finestra primaverile”. Sono però in corso da parte della stessa Regione le necessarie verifiche su quello che il ministro ha definito “allineamento” con la legislazione nazionale. A questo punto bisogna ricordare i termini della normativa in vigore. L’art.122 della Costituzione prevede che “il sistema di elezione e i casi di ineleggibilità e di incompatibilità del Presidente e degli altri componenti della Giunta regionale nonché dei consiglieri regionali sono disciplinati con legge della Regione nei limiti dei princìpi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica, che stabilisce anche la durata degli organi elettivi”.
Tale legge è la 165 del 2004, espressamente intitolata “disposizioni di attuazione dell’art.122, primo comma, della Costituzione”, che all’art.5 recita: “Gli organi elettivi delle regioni durano in carica per cinque anni, fatta salva, nei casi previsti, l’eventualità dello scioglimento anticipato del Consiglio regionale. Il quinquennio decorre per ciascun Consiglio dalla data della elezione”. Certo, la 165 è una legge ordinaria (anche se attuativa della Costituzione) e quindi per cambiare il sistema basterebbe approvare un’altra legge ordinaria, senza le maggioranze qualificate e i tempi della revisione costituzionale. L’attuale coalizione di governo ha i numeri per farlo, a prescindere da eventuali convergenze con pezzi dell’opposizione. Ma quali sarebbero le motivazioni? Il rispetto delle scadenze naturali degli organi elettivi è un principio fondamentale di democrazia e per derogare occorrono ragioni gravi ed eccezionali, non mere considerazioni di opportunità o di convenienza politica. Tanto più a pochi mesi dal voto. © riproduzione riservata
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