I messaggi che si autodistruggono su WhatsApp e il vero diritto all'oblio
venerdì 6 novembre 2020

È una battuta che al cinema abbiamo sentito più volte, soprattutto nei film d'azione: «Questo messaggio si distruggerà tra 10 secondi». Seguono lampi, fiamme, fumo o bagliori. Ma il risultato non cambia: il messaggio viene distrutto e ogni prova svanisce. Fra poco (almeno stando a quanto annunciato, ma vedremo che le cose non sono così semplici) accadrà qualcosa di simile anche su WhatsApp, cioè sul sistema di messaggistica più usato al mondo. «Basterà contrassegnare un messaggio come “effimero” e il sistema provvederà a cancellarlo dopo sette giorni». La nuova funzione sarà applicabile sia nelle chat individuali sia in quelle di gruppo.
Questa novità risponde ad una chiara esigenza degli utenti: far sparire i propri errori digitali. Ma non è così semplice, neanche nel «nuovo» WhatsApp. Perché uno dei vantaggi e degli svantaggi del digitale è che la Rete non dimentica e ogni traccia che lasciamo può essere usata contro di noi, anche quando crediamo sia sparita. Possono passare ore, giorni o anni ma, prima o poi, quella frase sbagliata, quel post stupido, quel video volgare che abbiamo postato salterà fuori e verrà usato contro di noi, quando magari non ricordavamo nemmeno più di averlo fatto.
Leggendo le nuove istruzioni di WhatsApp si scopre infatti che non è poi così vero che tutti i messaggi “effimeri” spariranno del tutto. Per esempio, «se in una conversazione viene citato il messaggio effimero, il testo potrebbe rimanere visibile nella chat anche trascorsi i sette giorni». Non solo: «Se un messaggio effimero viene inoltrato a una chat in cui la funzione messaggi effimeri è stata disattivata dagli amministratori, questo resterà visibile». Per non parlare del fatto che chiunque potrà inoltrare o fare uno screenshot di un messaggio effimero così da salvarlo per sempre (anche se WhatsApp tempo fa aveva pensato di togliere questa possibilità).
Il che ci porta a una delle questioni nodali delle nostre vite digitali: fino a che punto e in quali casi abbiamo diritto all'oblio? Anche se tendiamo a dimenticarlo, è importante, per esempio, pensare anche alla tutela delle vittime del bullismo, della violenza e dei reati digitali. Vittime che hanno il diritto di non vedere sparire le prove di ciò che hanno subìto per potere perseguire i colpevoli.
Sono questioni importanti, che spesso tendiamo a sottovalutare, pensando che in fondo basta non postare o scrivere scemenze e la questione è risolta. Così sarebbe facile. Ma chi decide (altro punto non da poco) cos'è una «scemenza» e quanto è grave? Perché se alcune foto, alcuni video e alcune parole che troviamo sui social e nella messaggistica digitale non danno adito a dubbi (sono inaccettabili, punto e basta), ce ne sono molte di più che appartengono a un'enorme «zona grigia». Quella dove si trovano concetti espressi male, goliardate, foto con un costume imbarazzante o in una posa sbagliata, e così via. E qui si apre un'altra questione: prima del digitale questi errori («giovanili» e non) restavano confinati nella memoria di pochi o al massimo venivano immortalati in foto destinate a finire in fondo ai cassetti. Ora sono vivi e alla portata di tutti. Col rischio che nessuno, soprattutto tra i più giovani (visto che già oggi alcune università americane selezionano gli aspiranti studenti anche in base a ciò che hanno postato sui social negli anni) sarà mai libero dai propri sbagli. Se bastasse questo per farci diventare più consapevoli di ciò che facciamo online, sarebbe anche positivo. Nel frattempo, però, sempre più spesso – soprattutto sui social – si finisce con il dare vita a una sorta di gogna digitale. Quella che trasforma anche persone apparentemente miti in giudici violenti e implacabili degli errori altrui. Col risultato di espellere sempre di più dalle nostre vite due pilastri fondamentali di qualunque società: la pietà e la giustizia.

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