giovedì 8 ottobre 2020
Per comprendere i nostri figli, dobbiamo sapere che i bambini attribuiscono ai propri genitori poteri, capacità e dunque anche responsabilità che nella realtà i genitori non hanno, come mi ha insegnato un piccolo episodio accaduto tanti anni fa. Quando mio figlio Matteo aveva circa quattro anni, una sera se ne stava appollaiato su una sedia intento ad osservarmi mentre preparavo un passato di patate. Improvvisamente è squillato il telefono; ho spento il fornello e mi sono allontanata un momento, raccomandando al mio bambino di non toccare assolutamente niente. Tornata dopo pochi secondi, ho scoperto però che con mossa fulminea Matteo aveva versato nella pentola l'intero contenitore del sale, rendendo così immangiabile la cena. Ma nel momento in cui, arrabbiata, lo stavo sgridando, ecco che Matteo mi ha guardato imperturbabile, con i suoi grandi occhi scuri sorridenti, e con ferrea logica infantile ha esclamato: «È colpa tua! Dovevi saperlo che io non ho il cervello!!».
La risposta potrebbe apparire bizzarra, ma da allora ho capito in maniera chiara qual è la logica definitiva di un bambino di quell'età: la mamma "sa", e tra le cose che sa non può non esserci il conoscere bene l'impulsività del suo bambino. Per questo motivo è compito suo anche quello di prevedere, di non fidarsi, di non lasciarlo solo nella tremenda tentazione di agire l'impulso. In caso contrario, la responsabilità sarà sua. Questa totale fiducia del bambino nel potere buono della madre trova corrispondenza in lei in un punto cruciale del suo essere; la lega infatti al figlio, in maniera talvolta inconscia ma molto profonda, un compito primario, una radice ultima di responsabilità non eliminabile: quella di far sì che il male non possa toccarlo. È una responsabilità alla quale non le è possibile sfuggire, perché radicata nel suo stesso essere madre; sta dunque a lei "sapere" come proteggere il figlio: saperlo sempre, saperlo prima, saperlo contro ogni logica e contro ogni ragione.
Per questo, quando un figlio si ammala gravemente, quando nasce con un danno che ne segnerà la vita, quando un figlio muore, nell'essere della madre avviene una lacerazione difficile da riparare: il suo sapere è stato inutile, la sua vigilanza insufficiente e vana. Anche se la ragione dice che è un compito impossibile quello di proteggere sempre e comunque l'altro dal dolore e dalla morte, il fallimento provoca un dolore che non vuole sentire ragioni: contro ogni evidenza la madre sente di avere fallito il suo compito fondamentale, e non può darsi pace.
Il dolore di questo fallimento non riguarda il senso di colpa, ma è piuttosto la sofferenza di una condizione impossibile: quella di essere creature limitate e di non poter dunque fornire quella protezione ultima che sola risponde alla fiducia e all'abbandono totali del figlio; "dovevi saperlo" è ciò che ogni madre sente risuonare in sé quando la vita ha reso impossibile proteggere il proprio figlio dal male.
Forse anche per questo le donne hanno sempre avuto una particolare apertura al soprannaturale: mettere al mondo un figlio infatti è un gesto definitivo, che pretende il per sempre; per i propri figli una madre non può che pretendere l'eternità, e non può in alcun modo accettare che precipitino nel nulla. La cultura odierna ci sta purtroppo appiatendo in modo drammatico sulla sola dimensione orizzontale, e parlare di fede oggi sembra non suscitare più alcun interesse: porsi domande sull'esistenza di una dimensione "altra" appare come qualcosa di inessenziale, del tutto scollegato dalla vita reale con i suoi affanni e i suoi molteplici, impellenti problemi.
Ma da questo approccio alla vita discende una drammatica caduta della speranza, una grande paura del futuro, chiuso in modo inesorabile dalla morte. Forse anche per questo oggi non nascono più bambini: private della possibilità dell'eterno, le donne non possono più permettersi di diventare madri.
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