Gentile Marco Tarquinio,
so quanto le è stato e le sta a cuore l'argomento “maternità surrogata-utero in affitto- gestazione per altri”. Le scrivo perché mi pare stia perdendo di profondità la discussione su un tema molto importante che quasi solo “Avvenire” continua a indagare a fondo. C’è stata, è vero, una fiammata polemica legata al caso che ha coinvolto la ministra Roccella al Salone del Libro di Torino, ma più che sul merito della questione, si è discusso, per così dire, di metodo: diritto alla contestazione e dialogo mancato, sino a evocare da entrambe le parti il fascismo. Penso, invece, che questo sia forse un momento adatto per tentare una riflessione serena su un tema che mette alla prova le radici più profonde del nostro essere, del nostro rapporto con noi stessi e con gli altri, del rapporto di coppia e familiare, della società in cui stiamo vivendo e nella quale vogliamo vivere in futuro. Perciò mi sono “avventurata” in una riflessione che trasformo in domanda. Prendiamo le definizioni usate. La parola maternità evoca un cammino lungo, che parte dal desiderio, si con-cretizza nel corpo e dilaga nello spirito; stride vederla abbinata alla parola surrogata che letteralmente vuol dire “di qualità inferiore” (viene in mente il caffè in tempo di guerra...) e di fatto esprime un tradimento della prima, maternità. La parola utero è apparentemente più semplice in quanto definisce un organo della donna, ma è quello dove si sviluppa una nuova vita, nella massima protezione, ed evoca una profonda intimità e inviolabilità; stride vederla abbinata alla parola affitto, un termine di esclusivo uso commerciale. Anche la parola gestazione è apparentemente più semplice in quanto definisce un periodo di tempo, ma è quello necessario perché la vita diventi autonoma, ed evoca le gioie, le fatiche, i dolori, la condivisione che essa comporta; e abbinarla alle parole per altri diventa, a mio avviso, un inganno, uno pseudo-altruismo: chi sono questi, definiti così vagamente “altri”? Non abbiamo parole adatte per esprimere questa esperienza... Penso che solo il rispetto – rispetto della natura e del nuovo essere umano – possa portare a unire le coscienze. In altre parole, possa aiutarci a capire l’importanza di tenere uniti corpo e psiche, biologia e diritto. In altre parole ancora, possa spingerci a tendere all’unità della persona e alla sua vitale relazionalità. La società non è semplicemente una somma di individui e non si può non vedere la necessità ineludibile di applicare il “principio di pruden-za”, peraltro applicato in tanti altri ambiti, a tutela del nascituro, della donna che porta avanti la gravidanza (anche se lo facesse davvero gratuitamente, per dono) e di tutti gli attori coinvolti: quali sono, infatti, le conseguenze psicologiche di una tale esperienza? Siamo di fronte a un chiaro esempio di come un “desiderio” voglia essere riconosciuto come “diritto”, superando il limite sanamente imposto dal “diritto dell’altro”. Eppure, a mio parere, occorre dialogare, sempre, anche per testare la possibilità di snellire l’iter per l’adozione di bambini che hanno bisogno di essere accolti in un ambiente familiare.
Caro Tarquinio,
tutti i genitori adottivi dicono che i figli, soprattutto in adolescenza, vogliono cercare i genitori naturali. Anche se sarà doloroso scavare in un passato ferito, i ragazzi vogliono sapere chi sono i genitori biologici e se possibile incontrarli. Altrimenti la lacerazione interiore rimane aperta. Resto pertanto perplessa sia dalla donazione di ovuli o sperma sia dalla maternità surrogata o solidale-utero in affitto-gestazione per altri... chiamiamola come vogliamo... Insomma, da tutte le pratiche che faranno nascere figli inevitabilmente già segnati da questa lacerazione interiore che per di più non potrà mai essere sanata dato che donatori e gestanti “per altri” restano anche per contratto anonimi. Saranno certamente figli fortemente desiderati e amati, ma mi chiedo se sia giusto nei loro confronti volerli a tal punto da farli concepire con una metodologia che, lo sappiamo a priori, li farà nascere irrimediabilmente feriti.
in queste domeniche di primavera, come ogni anno mi arrivano delle foto di Prime Comunioni, mi piace vedere nelle foto la gioia nei bambini e le espressioni talvolta malinconiche dei genitori e parenti. Poi, passa la festa. E spesso le famiglie e i bambini, apparentemente, si dimenticano delle celebrazioni della domenica. Qualche mese fa su “Soul”, il programma di Tv2000 condotto da Monica Mondo vidi un'intervista alla ministra Roccella: mi rimase impresso una risposta in particolare, quella in cui ragionava su come i Sacramenti abbiano avuto in lei maturazione dopo anni e anni. Spero che anche per i bambini possa avvenire come per Roccella e come, in parte, anche per me.
La vita umana è straordinaria, sebbene da sempre uomini dappoco congiurino per trasformarla in bersaglio o prodotto e per renderla peso difficile da sostenere per sé e per gli altri. Proprio per questo bisognerebbe maneggiarla senza arroganza, custodirla con responsabilità e insieme con gentile leggerezza, senza però arrivare a prenderla alla leggera, cioè con inconsapevole superficialità. Tanto più quando si tratta del mettere al mondo i nostri figli e le nostre figlie, perché su coloro che generiamo, comunque questo avvenga, nessuno di noi può pensare di apporre marchi o addirittura prezzi, e nessuno dovrebbe osare farlo. Non siamo padroni né committenti né mandanti dei nostri figli e delle nostre figlie. E di certo nessuno di essi dovrebbe mai portare o in qualunque modo subire lo stigma e il peso delle scelte, degli errori, delle violenze e delle presunzioni che a volte, sempre troppe, conducono a gravidanze e nascite. I bambini si accolgono, si fa loro letteralmente spazio nel mondo e dentro la trama di relazioni che è la vita. Perché essi non sono strumenti o accessori di autoaffermazioni altrui. E non devono diventare oggetto di commercio anche se in diverse situazioni e culture, a oggetto di commercio (procreativo, matrimoniale, lavorativo...) sono stati e vengono ancora ridotti. Lo scrivo senza moralismi e con dolore, perché so bene che i motivi per cui questo accade sono, a volte, dolorosamente comprensibili anche se sempre inaccettabili. Così come so che i figli e poi i nipoti, qui e ora, sono la nostra esistenza che continua in modo originale, imprevedibilmente simile e differente rispetto alla traccia che attraversa anche noi. E so che per loro possiamo essere non solo padri e madri “naturali”, cioè capaci di generare dai nostri lombi, ma anche morali e spirituali. E che queste sono paternità e maternità altrettanto vere, piene, decisive. Per questo ho sconfinata ammirazione e gratitudine per coloro che adottano, per i bravi insegnanti e per le persone generosamente consacrate a Dio e ai piccoli. «I vostri figli – cantava Khalil Gibran – non sono figli vostri. / Sono i figli e le figlie del desiderio che la vita ha di sé stessa. / Essi non provengono da voi, ma attraverso di voi. / E sebbene stiano con voi, non vi appartengono».