giovedì 5 settembre 2019
Nell'alfabeto degli affetti ci sono parole necessarie e a ben guardare molto utili per le relazioni, ma che suscitano una generale antipatia; tra queste, scelgo oggi di parlare della pazienza. La pazienza non è una virtù molto amata: viene infatti associata con cose molto "pesanti" come fatica, noia, ripetitività, lentezza, passività. Eppure, se penso a cosa nella vita ha sempre finito col salvarmi, direi che è stata proprio la pazienza, unita a una buona dose di buonumore: tanto che ritengo il buonumore e la pazienza due vere attitudini salvavita.
Nessuno nasce dotato di pazienza; in queste tranquille vacanze osservavo l'ultimo arrivato della famiglia, un nipotino di appena due mesi: come per ogni bambino sano, il tempo che passa tra avvertire la fame e iniziare a strillare a pieni polmoni è brevissimo. Ma osservavo anche i suoi giovani genitori, pensando che se nessuno nasce paziente, tutti possono imparare a diventarlo: alzarsi di notte negli orari più diversi, accorrere al pianto, cullarlo perché faccia il ruttino, sono tutte cose che richiedono pazienza: una pazienza che prima non c'era. Ed è una pazienza "buona", vitale, che dà profondità e spessore alla personalità di chi la esercita (in questo caso i genitori), senza strattonare o mortificare chi ne beneficia ( in questo caso il piccolo).
Non sempre la pazienza è "buona": c'è anche la pazienza a denti stretti, quella che si esercita contro voglia e che lascia trasparire il fastidio che nasce dal non potersi sottrarre; è una sorta di pazienza sacrificale, estorta, che mette sgradevolmente in debito l'altro, come purtroppo si osserva a volte nei confronti dei genitori anziani o delle persone disabili. Da dove nasce dunque la differenza?
Il fatto è che la vera pazienza, quella "buona", è legata alla passione per la vita. Quello che rende buona la pazienza (e dunque utile, talvolta anche allegra) è legato allo scopo per il quale la si esercita; è, ancora una volta, avere lo sguardo puntato fuori di sé, su una meta, su un obiettivo che ha valore per chi lo persegue. Ma la pazienza va, appunto, "esercitata": giorno dopo giorno, fino a renderla parte del nostro modo di essere. Allora potremo capire come sia davvero una grande risorsa, un alleato prezioso nel gustare fino in fondo le cose buone della vita. La pazienza ci richiede di "stare" sulle cose e questo impedisce che sfuggano via senza lasciare traccia. Per questo la persona paziente immagazzina ricordi più della persona impaziente: le cose assaporate fino in fondo diventano infatti davvero nostre e non possono più sfuggirci. Andare più lenti e ripetere gesti e parole permette di vedere, sentire e gustare una grande quantità di cose che in altro modo non potremmo né vedere, né sentire, né gustare. La persona paziente diventa capace di godere di più della vita: osserva le piccole cose e le apprezza, come chi cerca funghi nel bosco e impara ad aguzzare lo sguardo senza mai stancarsi.
Se l'origine latina ne sottolinea soprattutto il patire e dunque il sopportare (con quel sub/sotto che schiaccia), "pazienza" ha anche una radice che crea una parentela con "passione", parola che contiene in sé un doppio significato: di sofferenza, ma anche di emozione e desiderio. Il favore che dobbiamo fare a questa parola poco amata è dunque quello di comprenderla e accoglierla in entrambi i suoi significati: da un lato quello inevitabile della sopportazione (e dunque della resistenza), ma dall'altro anche quello più segreto e profondo che la collega alla passione (e dunque all'energia vitale). Nella vera pazienza non c'è una mancanza di amore di sé; vi si trova invece grande abbondanza di amore per la vita. Come sa bene chi ha avuto la fortuna di incontrare persone davvero pazienti, questa è una virtù che rende accoglienti, generosi, allegri e vitali: la persona paziente è una persona che sa aspettare, e che è capace di farti sentire sempre atteso e sempre benvenuto.
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