«Un poco alla volta ho accorciato, potato, sino ad arrivare a una parola sola. Una parola per dire quello che voglio veramente, questa cosa che mi porto dalla nascita, che mi segue come un’ombra, stesa sempre al mio fianco. Salvezza. Questa parola non la dico a nessuno, a nessuno oltre a me. Ma la parola eccola, e con lei il suo significato più grande della morte». Daniele Mencarelli svela così, già nelle prime pagine di Tutto chiede salvezza (Mondadori), quale è il nocciolo di questo racconto autobiografico, che lo vede ricoverato con un trattamento sanitario obbligatorio in un ospedale psichiatrico. Vicenda esistenziale, che apre uno squarcio di amorevole bellezza nel lettore, il quale si trova catapultato per una settimana in una stanza di persone malate di mente.
E alla fine di quel soggiorno obbligato, la voce narrante, Mencarelli stesso, torna a quell’anelito essenziale, primordiale, che oggi in tanti anestetizzano in mille modi, spesso fuorvianti: «Non ho detto a nessuno di venirmi a prendere. Voglio camminare, respirare, starmene all’aria per conto mio. L’enormità di tutto, dallo spazio ai colori, stordisce e innamora, la bellezza conquista gli occhi. Dall’alto, dalla punta estrema dell’universo, passando per il cranio, e giù, fino ai talloni, alla velocità della luce, e oltre, attraverso ogni atomo di materia. Tutto mi chiede salvezza. Per i vivi e i morti, salvezza».
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