Si avvia a conclusione un anno intensissimo per la vita dell'Unione europea, che ha visto dopo il voto di maggio per l'Europarlamento un ricambio profondo ai vertici di Bruxelles e che, con gli esiti del voto inglese di giovedì scorso, sconta ormai l'imminente addio definitivo di Londra. Il 2020 si annuncia pertanto come una pagina per molti versi inedita nella storia comunitaria. E tra le tante novità spicca anche il semestre di presidenza croata, che scatterà il 1° gennaio prossimo, quando si chiuderà il turno di guida finlandese e il testimone verrà passato al nostro vicino balcanico.
La "prima volta" di Zagabria al ruolo di "chairman dei 27" giunge a sei anni e mezzo dal suo ingresso a pieno titolo nel club di Bruxelles, pur restando il Paese ancora fuori dall'eurozona e dalla cosiddetta area Schengen, nella quale spera peraltro di entrare al più presto, magari proprio entro la scadenza di fine presidenza del 30 giugno. Dovrà fare i conti con l'opposizione della Slovenia, che alimenta da tempo un contenzioso sui confini marittimi e terrestri fra i due paesi. Come si intuisce, è una "coda" avvelenata del conflitto che ha lacerato il Continente subito dopo la fine dell'ex-Jugoslavia.
Ma è anche per questa ragione che la presidenza di turno croata acquista un notevole significato simbolico. Per Lubiana infatti, tra la fine di giugno e inizio luglio del 1991, fu relativamente semplice uscire dal ginepraio provocato dalla disgregazione del vecchio stato federale, che il maresciallo Tito aveva saputo tenere insieme dalla fine della seconda guerra mondiale e per alcuni anni anche dopo la sua morte (1980). E non a caso la Slovenia è nella Ue già da maggio del 2004, avendo così potuto firmare assieme agli altri partners il Trattato di Lisbona.
Molto diversa la vicenda che ha portato all'indipendenza della Croazia, dopo quattro lunghi anni di doloroso conflitto, ben presto esteso a Bosnia ed Erzegovina, a tratti particolarmente sanguinoso e caratterizzato da episodi efferati ai danni delle popolazioni civili. La stessa faticosa pace negoziata a Dayton, nello stato americano dell'Ohio, ha lasciato a lungo strascichi e contestazioni tra le entità etnico-religiose coinvolte.
Ma questo benedetto edificio comunitario, con tutte le sue manchevolezze e lentezze, con i ritardi e le delusioni che spesso provoca, ha tuttavia dalla sua questa implicita capacità di aggregazione, frutto maturo forse poco evidente ma innegabile degli ideali di pace, di tolleranza reciproca e di collaborazione tra i popoli, che animarono i padri fondatori. Quelli si misero all'opera avendo ancora davanti agli occhi le macerie e i lutti che si erano reciprocamente inflitti. I loro successori, pur guardando doverosamente agli interessi dei propri concittadini, faranno bene a non dimenticare di cosa sono capaci i demoni nazionalisti se non vengono tenuti a bada.
A Zagabria e dintorni l'afflato europeista non sembrerebbe molto diffuso, almeno a giudicare dalla partecipazione al voto per il Parlamento di Strasburgo: l'affluenza alle urne del 26 maggio ha sfiorato appena il 30 per cento, seppure con un incoraggiante 4,8 in più rispetto a cinque anni fa. Ma la guida della "macchina" Ue, oltre allo stimolo verso gli altri partners, può influenzare sensibilmente l'opinione pubblica interna, se ben sfruttata.
A inizio novembre il premier Andrej Plenkovic ha presentato il programma del suo semestre di presidenza, all'interno del quale figura un appuntamento delicatissimo: il vertice Ue-Balcani occidentali di maggio, diventato decisivo per il possibile allargamento agli Stati della regione, dopo il recente "stop" francese ad Albania e Macedonia del nord. Per la Croazia, una sfida da non perdere. E anche per l'Europa.
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