Con i quasi 80 suicidi in carcere già ufficialmente registrati dal 1° gennaio, l’Italia si avvia a concludere l’anno più tragico della sua storia penitenziaria. Questo pur deplorevole record di morti autoinflitte non basterà ad assegnare al nostro Paese l’ennesima “maglia nera” d’Europa, anche se forse alla fine del 2022 ci farà scalare qualche posizione nella triste classifica: in rapporto al numero dei reclusi, eravamo al decimo posto nel 2021, dietro Repubblica Ceca, Lettonia, Austria, Francia ed altri. Mentre in assoluto la cifra più alta era appannaggio dei nostri cugini d’Oltralpe, con 175 casi. La piaga dei detenuti che si tolgono la vita dietro le sbarre è infatti aperta e sanguinante da tempo in tutto il Continente, ma né le autorità nazionali né quelle dell’Unione sembrano in grado di trovare una cura efficace. Forse perché la cultura dello scarto trova facile alimento nei pregiudizi ai danni di quanti, a torto o a ragione, incappano nelle maglie della giustizia. E quindi non meritano che ci si affanni troppo per loro.
L’aspetto più inquietante del fenomeno, però, sta proprio nel fatto che la spinta a togliersi la vita è più diffusa tra chi si trova in prigione in attesa di sentenza. Non si tratta cioè di condannati, ma di persone che, al termine del percorso giudiziario, potrebbero risultare innocenti. Anche questa è una costante in quasi tutti i circuiti penitenziari dei Ventisette e degli altri Stati extra-Ue. Il tasso di suicidi tra i carcerati in custodia cautelare o non ancora processati è sistematicamente molto più alto rispetto a quello dei condannati. Spesso ha una incidenza più che doppia e, in alcuni Paesi, il ricorso al suicidio riguarda esclusivamente reclusi mai giudicati da un magistrato. Prendendo ancora ad esempio la Francia, l’anno scorso sono stati 98 i suicidi di chi aveva già subito condanne a pene detentive, pari al 2,2 per mille del totale, mentre i 77 gesti estremi compiuti da chi era in attesa di giudizio equivalevano al 4,3 per mille della categoria.
Diverse e più volte evidenziate sono le cause di questa dolorosa realtà, legate alla fragilità psicologica, all’età e alle condizioni sociali dei soggetti coinvolti, soprattutto quando sono accusati di reati di minore entità e potrebbero essere sottoposti a misure alternative alla detenzione. Il Parlamento europeo si è occupato raramente della “galassia carceri”, l’ultima volta all’inizio del 2017, con un documento come al solito di portata “enciclopedica” e molto preoccupato del rischio di radicalizzazione per reati a sfondo terroristico. In quel testo, il nodo dei suicidi veniva toccato solo marginalmente, in relazione al problema del sovraffollamento degli istituti di pena. In realtà, alcuni studi hanno dimostrato che non c’è un rapporto diretto con la mancanza di spazio nelle celle. Anzi, è piuttosto l’isolamento e il senso di smarrimento e di abbandono di chi per la prima volta entra in contatto con la prigione a far scattare l’impulso verso gesti autolesionistici.
A differenza della Costituzione italiana, che parla di detenzione mirata al recupero sociale dei condannati, i “sacri testi” dell’Unione europea non contengono nulla al riguardo. Si enuncia solo il principio secondo cui “le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato” (articolo 49, comma 3 della Carta dei diritti). Ma quale pena è più sproporzionata di una condizione carceraria che spinge i più deboli a togliersi la vita?
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