Abbiamo bisogno della speranza che ci arriva dai bambini: bambini chiassosi, disordinati, allegri, capricciosi, curiosi. Abbiamo bisogno di tanti bambini: abbiamo bisogno che siano abbastanza numerosi da fare rumore, da tornare a farsi sentire. Abbastanza numerosi per sfuggire almeno un po' all'ossessione delle nostre cure, delle nostre paure, delle nostre aspettative.
Nel silenzio di questo tempo strano, si sente forse in modo più chiaro, più concreto, direi a tratti persino fisico, la mancanza di figli. La denatalità ormai non è più un argomento riservato ai cattolici, ma una triste evidenza di cui parlano in molti: l'invecchiamento della popolazione, il problema delle pensioni, l'impoverimento economico, sono tutte minacce che pesano sul nostro futuro. Ma l'emergenza di cui parlo non riguarda il futuro, e non riguarda neppure l'economia; riguarda invece il tema della felicità, diventata ormai così rara: ci siamo talmente appiattiti sull'utile e sul piacevole da non ricordare più che essere felici è ancora possibile.
La felicità è legata al desiderio, che è cosa diversa dal bisogno, anche se entrambi originano da un sentimento di mancanza. Nel desiderio, il senso di mancanza stimola ad essere creativi e l'attesa di ciò che si desidera si nutre di pensiero, di immaginazione, di narrazioni. Il desiderio è una tensione che ci rende capaci di creare e non si esaurisce con il suo compimento, perché attiva in noi anche la possibilità di prenderci cura di ciò che abbiamo generato. Il bisogno invece ha carattere di urgenza e chiede soddisfazione; la sua spinta si esaurisce con l'appropriazione dell'oggetto. Il bisogno non genera ma consuma, e non sviluppa competenze di cura: il circuito bisogno-soddisfazione senza apertura al desiderio ci rende sterili e sempre insoddisfatti.
Ma quali immagini, quali narrazioni abbiamo oggi della maternità, della paternità, della genitorialità, della filiazione? Si può desiderare qualcosa che ci è completamente ignoto, o di cui abbiamo un'immagine distorta? La disponibilità a trasmettere la vita è un dono che passa di generazione in generazione, perché è legato al desiderio di chi ci ha preceduto.
Purtroppo oggi il figlio è vissuto spesso come un problema: un vincolo e una difficile responsabilità piuttosto che una risorsa. Non ci viene raccontato come il “di più” che nasce dal desiderio che un uomo e una donna provano l'uno per l'altra: un dono concreto, che è capace di attivare in noi nuove competenze e nuove risorse, che porta con sé novità, futuro e speranza.
La coppia si trova davanti all'ipotesi impegnativa di un figlio senza un supporto adeguato di immagini e di pensieri; avere un bambino può essere deciso allora solo se e quando la sua nascita si inserirà nei nostri progetti di vita, completando l'immagine che vogliamo avere di noi stessi.
Ma mettere al mondo un figlio non può collocarsi nello stesso ordine delle altre decisioni: non è come scegliere se acquistare una casa, oppure accettare o rifiutare un lavoro; non ha niente a che fare con il modo di procedere che ci guida negli altri ambiti di vita. Il figlio è un'apertura all'ignoto, all'imprevisto, a qualcosa che sfugge ogni possibile programmazione; accogliere un figlio significa accettare l'inizio di un'avventura che potremo controllare solo in minima parte, e che potrà esporci alla gioia ma anche al dolore, a soddisfazioni ma anche a frustrazioni. Un figlio ci cambia la vita senza ritorno e ci chiede di accettare il rischio di una novità vera che, pur originando da noi, non potremo e non dovremo controllare.
Questo è ciò che ci fa paura; ma questo è anche ciò che rende il diventare genitori una cosa così speciale, che non assomiglia a nessun'altra: qualcuno che prima non esisteva inizia ad esistere attraverso di noi, e la sua presenza inaugura un mondo nuovo, capace di felicità. Perché i bambini, loro sì, sanno essere felici, e con i loro pensieri, le loro parole, le loro curiosità e scoperte sono capaci di regalare a chi li ama uno sguardo sempre rinnovato sulla vita.
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