La dottoressa Hiyam cura i bimbi di Betlemme
giovedì 21 novembre 2024

Quando le hanno annunciato che sarebbe stata lei, una donna, la primaria dell’unico ospedale pediatrico della Cisgiordania, con 50mila trattamenti all’anno e un bacino di utenza di 300mila bambini, la dottoressa Hiyam Marzouqa Hawad non è riuscita a chiudere occhio per diverse notti.

Era il 2006: si tormentava per le nuove responsabilità, e per come l’avrebbero presa i suoi colleghi uomini. Poi ha ripensato al padre, un insegnante che credeva nell’istruzione ma, non avendo le risorse per mandare all’università i suoi 7 figli, li spronava a impegnarsi per conquistare una borsa di studio. «In una società dominata dagli uomini, una donna non sarebbe arrivata così lontano senza il loro sostegno. Il mio primo mentore è stato mio padre, che quando sono partita per la Germania a studiare Medicina con una borsa di studio ha vinto le resistenze di mia madre e mia nonna, e il secondo un medico più grande, che ha voluto farmi crescere professionalmente perché vedeva il mio impegno».

La dottoressa Hiyam Marzouqa Hawad al lavoro

La dottoressa Hiyam Marzouqa Hawad al lavoro - Aiuto Bambini Betlemme

Hiyam, 62 anni, parla con Avvenire da Betlemme. Da quest’estate è in pensione, dopo 34 anni di lavoro al Caritas Baby Hospital della città palestinese, di cui 18 da primaria. Come si sente, dottoressa? «Sono stata così a lungo piena di responsabilità che ora mi godo un po’ di “testa vuota” – risponde su Skype –. La mattina un paio d’ore le trascorro all’ospedale come docente, al pomeriggio ho aperto un mio ambulatorio pediatrico. Ma con calma... ». L’ultimo anno è stato terribile: la guerra a Gaza ha isolato completamente l’ospedale. «Abbiamo avviato una help line per rispondere alle urgenze delle famiglie dei bambini e inviarle dove possibile ad altri ospedali, e abbiamo fornito a domicilio le cure per i malati cronici. Ma non è stato facile: è molto triste sapere che a poca distanza da noi, a Gaza, ci sono bambini che soffrono la fame e la sete e noi non possiamo fare niente».

Padre di religione greco-cattolica, madre cattolica, Hiyam ha seguito quest’ultima. «Siamo molto orgogliosi di essere di Betlemme, la città dov’è nato Gesù. Ma questo Natale, così come quello del 2023, sarà triste: sono state annullate le feste, spente le luminarie, silenziate le musiche. È penoso. Per respirare un po’ di aria di festa ascolto a casa canzoni natalizie».

La dottoressa però non si scoraggia: la sua filosofia di vita è cercare di trarre il meglio anche dalle situazioni più difficili. Come fa, a contatto con la sofferenza che la circonda? «Se guidi una squadra, non puoi permetterti di mostrarti triste o scoraggiata. Devi motivare gli altri, e quindi bisogna stringere i denti e andare avanti. E poi mi basta il sorriso di un bambino per riprendermi». La forza per affrontare i conflitti della sua terra «mi arriva dalla fede in Dio. Quando sento la debolezza, prego. E mi aiuta moltissimo». Sorride spesso, la dottoressa, con un sorriso dolce e intenso, scuotendo la massa di capelli scuri. Prima della nidiata, racconta della sua infanzia felice, e di aver imparato dalla sua famiglia numerosa il senso di responsabilità e il prendersi cura degli altri. Lei di figli ne ha due; il maggiore vive in America e il minore si sta laureando in Medicina a Hebron, con il sogno di trasferirsi all’estero. «Tutti i giovani vogliono andarsene perché qui non c’è futuro, non sappiamo quando potremo vivere in pace».

Nei suoi anni al Caritas Baby Hospital (un ente benefico sostenuto da varie organizzazioni tra cui in Italia la veronese Aiuto Bambini Betlemme: ai pazienti che possono permetterselo si chiede un contributo simbolico per le cure) ha conosciuto tante vicende. Ad Avvenire ne racconta una: «Facendo alcuni controlli su un bambino scoprimmo che aveva un problema serio, che avrebbe comportato un intervento e un follow up per diversi anni. Mentre dicevo questo alla madre, lei mi guardava con odio, come se mi volesse dire: come ti permetti di dirmi che il mio bambino è gravemente malato, non ho soldi per curarlo. L’assistente sociale mi disse che era una famiglia molto povera, che non avevano neppure da mangiare. Naturalmente ce ne occupammo e dopo 4 anni, quando il bambino fu dichiarato guarito, la madre mi disse che sì, mi aveva odiato, ma poi aveva visto quanto ci fossimo impegnati per salvare il suo piccolo. Lo sguardo di quella donna non lo dimenticherò mai».

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