«Una democrazia “della maggioranza” sarebbe, per definizione, una insanabile contraddizione, per la confusione tra strumenti di governo e tutela della effettiva condizione di diritti e di libertà». Questo passaggio del discorso di Sergio Mattarella alla Settimana sociale di Trieste – un discorso tutto memorabile – va a illuminare una questione essenziale per la democrazia di ogni tempo. Ci si potrebbe agevolmente spingere sino alle fonti del pensiero classico, ma la mente di noi “moderni” corre subito ad Alexis de Tocqueville che nel XIX secolo denunciava i rischi della “dittatura della maggioranza”. Un filone di pensiero che ha avuto il suo contraltare in quello scaturito dalle tesi di Jean-Jacques Rousseau, che un secolo prima aveva teorizzato il primato di una “volontà generale” priva di limiti. Non si può capire la storia del Novecento e di questo scorcio del XXI secolo, nel bene e nel male, se si prescinde da queste due radici. Per confutare il tragico equivoco rousseauiano il capo dello Stato ha scelto le parole di un’eminente giurista cattolico, Egidio Tosato, uno che alla Costituente sostenne posizioni che oggi definiremmo di “parlamentarismo razionalizzato”, ma che sul punto in questione non aveva dubbi né lasciava margini di ambiguità: «Noi sappiamo tutti ormai che la presunta volontà generale non è in realtà che la volontà di una maggioranza e che la volontà di una maggioranza, che si considera come rappresentativa della volontà di tutto il popolo può essere, come spesso si è dimostrata, più ingiusta e oppressiva che non la volontà di un principe».
Argomentazioni tornate di straordinaria attualità in una fase storica in cui la ventata dei populismi ha riportato in auge il fascino insidioso dell’assolutismo della maggioranza. Tanto più insidioso per la democrazia se si considera che le maggioranze di cui si parla sono in realtà delle minoranze rispetto alla totalità del corpo elettorale e spesso anche in rapporto al numero dei votanti effettivi. Un fenomeno amplificato dal calo della partecipazione nelle urne e dagli effetti distorsivi inevitabilmente prodotti – ovviamente in misura molto diversificata a seconda delle soluzioni adottate ed è un aspetto cruciale, come tante volte abbiamo sottolineato anche in questa rubrica – da tutti i sistemi elettorali. Nel momento in cui si tratta di tradurre milioni di voti in poche decine di seggi anche il sistema più proporzionale non può offrire una rappresentazione fotografica dei consensi espressi. Figuriamoci quando si scelgono sistemi variamente maggioritari per favorire la governabilità, che pure è un obiettivo percepito sempre più come ragionevole. Due esempi assortiti di minoranze vincenti. Nel Regno Unito i laburisti hanno appena ottenuto il 63% dei seggi con circa il 34% dei voti. In Italia, nelle ultime politiche, la coalizione di destra-centro ha ottenuto la maggioranza in Parlamento con poco più di 12 milioni di voti su oltre 46 milioni di aventi diritto (escluso l’estero). Nessuno ovviamente mette in dubbio il diritto di Keir Starmer e Giorgia Meloni di governare in virtù delle regole che i rispettivi Paesi si sono date, ma il loro non è un mandato assoluto e i loro governi non sono rappresentativi “della volontà di tutto il popolo”. Il tema dei limiti e dei contrappesi è decisivo per il futuro della democrazia e il dibattito di casa nostra non sempre ne coglie la portata.
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