Un aneddoto chissà quanto vero (ma è grazioso pensare lo sia) racconta che Albert Einstein, mentre si trovava a New York, bonariamente criticato e ripreso da un conoscente per la trasandatezza del vestire, rispose: «Ma sono in una grande città, nessuno mi conosce». E che quando stesso benevolo rimprovero gli venne fatto nel mentre si trovava a insegnare a Princeton, obiettò: «Ma che importanza può mai avere? sono in una piccola cittadina, mi conoscono tutti». Al di là del buffo – e chissà se vero – doppio episodio, esso dice come i nostri modi di essere siano più e meno condizionati dal trovarci in luoghi più o meno grandi. Sottostante, l’aneddoto contiene anche l’idea di una salutare indifferenza all’altrui giudizio che scaturisce dalla altrettanto realistica sensazione di sentirsi sempre in transito, di volta in
volta “residenti per caso”. Non conta dove si è, ma come ci si sente. Percepirsi e comportarsi, quando possibile, da cittadini del mondo: tale certo Einstein si sentiva. Una sensazione benefica, più ancora se considerata alla luce di tempi di enfasi su nazionalismi e appartenenze geografiche e geopolitiche. Sia o non sia vero l’apologo, certo Einstein possedeva quel passo leggero di chi sa di appartenere ad ogni luogo, e insieme di non appartenere a nessuno. Il transito, di suo, è condizione potente quanto a influssi: genera sensazioni di volta in volta angosciose, o tristi, o invece galvanizzanti e inebrianti. Scriveva poeticamente Katherine Mansfield in una pagina dei suoi diari (La vita della vita, Diari 1903-1923, a cura di Sara De Simone , Donzelli,
pagine 276, euro 24,00): «Mi sembra di trascorrere metà della mia vita ad arrivare in alberghi sconosciuti. E a chiedere se posso andare subito a letto». In modo speculare, Nikolaj Gogol ne Le anime morte osservava in modo meraviglioso la psicologia del viaggiatore, anzi del “viaggiatore non viaggiante”, colui che ha già i bagagli perfettamente pronti e, di nuovo in una stanza d’albergo, se ne sta ad aspettare che arrivi il momento di partire. «Quando uno non appartiene più né alla strada né a una dimora stabile, e vede dalla finestra la gente che passa e bighellona, e parla dei suoi soldarelli, e questo esaspera peggio il malumore del disgraziato viaggiatore non viaggiante», scriveva. Il transito è libertà, il transito è malinconia e solitudine; o invece il transito è attesa, disappartenenza ma anche sensazione di entusiasmante, intima libertà. Siamo tutti in transito, esposti agli occhi altrui tanto quanto in potenza liberi di mimetizzarci, renderci invisibili. Siamo tutti viaggiatori non viaggianti, ma nessuno o quasi nessuno lo avverte, né è in grado di apprezzarne il valore. Al contrario, quello sguardo sempre relativizzante che (secondo l’aneddoto) Einstein sapeva puntare sé stesso, mettendosi con ironia in rapporto con le dimensioni di ogni luogo, è quanto di più onesto, realistico, sensato possiamo utilizzare per considerarci. Ciascuno è unico e invece anche del tutto “confondibile”. Saperlo ossigena tutto, illimpidisce noi tanto quanto il nostro osservare, e abitare, il mondo. Ciascun luogo del mondo.
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