Miguel non è americano, ma ha le idee chiare su come funzionano gli Stati Uniti. Forse perché, come immigrato senza documenti, ha studiato a lungo, sempre dal basso, gli ingranaggi del sistema Usa, misurando con cura dove poteva infilarsi senza rimanerne schiacciato.
Da 25 anni, da quando è arrivato dal Nicaragua, è un calcolo che gli riesce bene: ha quasi sempre lavorato (nella produzione di pannelli di legno, lavando piatti e come cuoco, e in una fabbrica dove scuriva i finestrini delle auto), non è mai stato arrestato né deportato, ed è riuscito a dar da mangiare alla sua famiglia e a far studiare fino ai 18 anni di età i tre figli. Da quando Donald Trump è stato rieletto, però, i colleghi alla compagnia di traslochi dove lavora alla giornata a Phoenix, in nero, hanno cominciato a metterlo in guardia. E se il nuovo presidente, come ha promesso, si mettesse davvero a detenere tutti gli irregolari, prima di rimandarli nei loro Paesi?
Miguel (che non rivela il cognome e non vuole farsi fotografare), seduto sul marciapiedi durante una pausa, scuote la testa, perché, anche se non può votare, ha un’opinione politica definita. «Ho sentito che dice che caccerà la gente – dice –. Forse dice così solo per fare paura. Ma a me Trump piace, sono d’accordo con lui».
Di fronte agli sguardi stupiti degli interlocutori, il 43enne si spiega meglio. «Le deportazioni sono necessarie per mandare a casa loro gli immigrati che hanno commesso dei crimini. Questa è la mia speranza – afferma –. Perché quando gli immigrati commettono crimini, gli americani pensano che siamo tutti criminali».
Trump ha ripetutamente accusato i non americani di contribuire in modo sproporzionato agli episodi di violenza negli Stati Uniti, sia durante le sue campagne presidenziali che durante il suo mandato come presidente. Ma Miguel, che è anche favorevole a rendere più difficile l’ingresso nel Paese, non crede che il nuovo presidente riuscirà effettivamente a lanciare «la più grande operazione di deportazione nella storia americana», come proclama sul suo sito, perché quattro anni non sarebbero sufficienti per farlo.
Per stare sul sicuro, però, Miguel, che da quando è arrivato negli States ha sempre vissuto in Arizona, sta pensando seriamente di trasferirsi a San Francisco con la moglie, anche se non sa se i figli, che sono nati negli Stati Uniti e sono cittadini americani, li vorranno seguire, perché hanno una loro vita a Phoenix. «A San Francisco mi sentirei più protetto, perché è una città santuario», spiega, usando la definizione data alle amministrazioni locali americane, perlopiù a gestione democratica, dove le autorità e la polizia si rifiutano di fare arresti a nome dei funzionari d’immigrazione e non trasmettono al governo federale le informazioni sugli immigrati senza documenti.
«A San Francisco, se non hai documenti va tutto bene, me lo hanno detto in tanti», dice Miguel, aggiungendo che, se non ha mai avuto un incontro con gli agenti dell’Ice (il braccio dell’agenzia d’immigrazione), è perché si tiene sempre ben informato. E di recente ha sentito al telegiornale che a partire da quest’estate in Arizona le forze dell’ordine potranno fermare chiunque per strada e chiedere di dimostrare che vive negli Stati Uniti legalmente. Chi non prova la cittadinanza o mostra un permesso di soggiorno potrà essere deportato seduta stante.
La nuova legge e l’elezione di Trump aggiungono due ingranaggi da considerare nel calcolo dei rischi che Miguel fa ogni giorno da un quarto di secolo, e a ben vedere anche da prima, quando era un adolescente e doveva fare attenzione a non farsi nemici fra le gang, ma neanche troppi amici, per non finire nei guai.
«Non credo che nessun presidente possa permettersi di rimandarci tutti nei nostri Paesi – conclude – gli Stati Uniti hanno bisogno di noi per far andare avanti l’economia. Qualunque cosa dica o faccia chi comanda, in America l’immigrazione illegale è inevitabile. Hanno messo il muro e non è servito. La gente continuerà a veni
re. Se rischi di morire o se devi dare da mangiare ai tuoi figli, non t’importa niente di niente, vieni ugualmente».
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