A sessant'anni dalla firma dei Trattati di Roma, i cittadini europei poveri o con buone probabilità di diventarlo sono la bellezza – si fa per dire – di 117 milioni e mezzo. Una cifra impressionante: quasi un quarto, il 23,4 %, della popolazione totale (circa 510 milioni, comprendendo ancora la Gran Bretagna). È come se Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Portogallo e Repubblica Ceca, tutte insieme, fossero abitati soltanto da bisognosi o da veri e propri indigenti. Il dato, diffuso da Eurostat in occasione della recente Giornata mondiale di lotta contro la povertà dell'Onu, risalta ancor più alla luce del monito rivolto sabato scorso dal Papa durante il Seminario della Comece sul "ripensare l'Europa", in cui ha invitato a non esaminare questi fenomeni solo alla luce delle fredde cifre, misurando «le soglie di povertà», da usare magari come «alibi del disimpegno».
Nel caso dei poveri, d'altra parte, anche la semplice lettura dei numeri dovrebbe imporre profonde riflessioni. Eurostat precisa ad esempio che, all'interno del dato globale, la quota delle donne (24,3%) supera di quasi due punti quella degli uomini (22,4) e che la percentuale dei minori di 18 anni (26,5%) è parecchio superiore a quella delle "pantere grigie" con più di 65 (17,7). La rilevazione parla di «popolazione a rischio di povertà o di esclusione sociale». Per calcolarla, Bruxelles considera tre possibili fattori che provocano l'inserimento in "zona pericolo": reddito monetario insufficiente anche dopo i trasferimenti sociali, severa privazione di mezzi di sussistenza, basso livello di occupazione. Basta che se ne verifichi uno, per essere considerati nell'area a rischio. Inutile dire che la presenza di figli in famiglia aumenta sensibilmente la possibilità di cadere nel girone dei dannati, con il 24,6 % contro il 22,1 dei ménages senza prole.
L'altra faccia dell'Europa del benessere, del cuore del "primo mondo" opulento, fa dunque capolino attraverso le fredde cifre della statistica, rivelando anche profonde differenze tra gli abitanti delle diverse aree. Così, se in media quasi un terzo (31,1%) degli europei non può permettersi neppure una settimana l'anno di vacanza, ai due estremi troviamo una Svezia che vede solo l'8,2% dei suoi cittadini in questa condizione, contro i due terzi tondi dei romeni (66%) costretti a rimanere sempre a casa. E a proposito di minori, quel 26,5% medio di "poveri o quasi" nasconde un'altra forbice rilevante fra il minimo della Danimarca (13,8%) e il massimo ancora una volta della Romania (49,2).
Il dato che non ti aspetti emerge dal fattore disoccupazione: quando entra in ballo la mancanza di lavoro, è scontato che il rischio povertà registri un balzo in alto, fino a toccare nell'insieme del Continente il 67% (pericolo che crolla al 12,4 quando invece in famiglia il lavoro c'è). Ma se mediamente è così, colpisce scoprire che l'incidenza massima della disoccupazione, come causa di povertà, riguardi la ricca Germania con l'83,3%, mentre il livello più basso si registra in Slovenia con il 56,3. Perfino il possesso di una laurea pesa in maniera sensibilmente diversa. Nel suo complesso, i cittadini europei che tirano la cinghia pur vantando studi superiori sono l'11,5% del totale. Ma il range evidenzia distanze relative notevoli, con il 3,4% di Malta che risulta quasi di più di sei volte inferiore al 21,1% della non lontana Grecia.
Tornando all'Unione nel suo insieme, non conforta la considerazione che, malgrado la ripresa in atto ormai da alcuni anni (anche se non in tutti i Paesi con la stessa velocità e intensità) la quota di cittadini poveri o a rischio di esclusione sia rimasta pressoché invariata nel decennio che va dal 2008 a oggi. Allora, nell'anno che segnava il punto più alto della crisi economica mondiale, toccò il 23,7 ed è scesa solo di tre decimali l'anno scorso. Segno che gli strati sociali più disagiati sono sempre gli ultimi a godere dei benefici della crescita. E come Francesco non cessa di ricordare, dietro ai numeri ci sono le persone.
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