Il primo giorno di prima elementare eravamo in così tanti, in una scuola a Porta Nuova, a Milano: forse in trecento, 6 anni, grembiuli bianchi o blu, mobili come argento vivo – un’onda che rivedo nel sole pallido di quell’ottobre anni ‘60. E, lo sguardo su di noi dei genitori, delle maestre più anziane. Sembravano intensamente commossi. Non potevo capire cosa avevano traversato, cosa avevano visto, e quanti mariti, o figli, avevano perduto in guerra. Non sapevo che sotto a quella grande scuola c’erano porte con la scritta “U.S.”, uscita di sicurezza, e ripide scale che scendevano nei rifugi antiaerei. Chissà cos’era, mi domando oggi, condurre centinaia di bambini, di corsa, nell’urlo delle sirene, giù per quelle scale. Ridevano forse i più piccoli, pensando a un gioco? Ma chissà invece il cuore delle maestre, con quelle nidiate attorno e i figli lontani, mentre Milano tremava nel tonfo delle bombe. (A Gorla, periferia est, nel ‘44 una bomba centrò una scuola. 184 bambini morti, e 14 maestre, e mamme, e bidelli). Vent’anni dopo, le maestre che avevano visto la guerra, i capelli grigi, come ci guardavano: il grande male era lontano, e nella pace si poteva sperare.
Eravamo così tanti, quel mattino, che per guidarci sui muri erano stati incollati nastri di carta di diversi colori, che conducevano alle aule. Il nastro della prima A era rosso, lo vedo come fosse adesso sul muro, molto più alto di me. E risento i miei passi, quasi di corsa, contenta di essere finalmente “grande”. Non comprendevo razionalmente, ma respiravo un sentire comune: il futuro era buono.
Quel nastro rosso mi ritorna in mente: come il simbolo di una speranza nata da una grande sofferenza, e dunque profondamente radicata. Vista – e subìta – tanta morte, si desiderava il bene. Non tutti, certo, i delinquenti c’erano anche allora. Ma, nell’insieme, l’aria pure inquinata di Milano, la città pure divisa davanti alle masse di immigrati dal Sud, erano percorse da una fiducia comune. Si andava verso un bene. I bigliettai sui tram sorridevano ai bambini, contenti che fossero tanti, e innocenti, e ignari del passato.
Ecco, quella speranza comune, mi manca oggi in modo struggente. Il Covid già era stato un duro colpo, ma almeno si era lottato insieme. Lo shock, sono stati i carri armati russi in Ucraina. La guerra che risollevava il suo muso di bestia in Europa. Non una guerra intestina, come nell’ex Jugoslavia. Quei carri nelle città ucraine mordevano un pezzo di Europa. Il filo rosso del mio primo giorno di scuola vacillava. Con i massacri e le fosse comuni a Bucha ho sentito quel filo spezzarsi. La guerra non si è fermata.
Poi, il 7 ottobre. Un altro giorno che mi ha tolto il fiato: un pogrom di puro stampo nazista. Poi mi hanno atterrito, e mi atterriscono, le città palestinesi annientate senza alcuna pietà.
Infine, l’altra notte, Trump. Come lo scatto di uno scambio sui binari di un treno. L’America cambia rotta. Anche i cattolici secondo i sondaggi hanno votato in maggioranza per Trump. Per i suoi proclami anti aborto, capisco. Ma il primo atto annunciato dal presidente è la deportazione di centinaia di migliaia di migranti, alla frontiera col Messico. Una deportazione epocale di disperati. L’America che rinnega la sua storia.
Intanto già Putin si congratula con il vincitore e sorride, sornione, convinto di mangiarsi l’Ucraina. Intanto Francia e Germania guardano a destra, a una destra anche estrema. Quale Europa si disegna?
L’antisemitismo – anche grazie a Netanyahu – dilaga. Una grave crisi economica incombe. Il mio filo rosso, stracciato. Paura. Guardo i nipoti con tenerezza e apprensione. Ho sentito il cardinale Parolin in tv: «Il male non prevarrà», ha detto, nella petrosa certezza cristiana. Non praevalebunt. Alla fine, non prevarranno. Ricordiamocelo. Chiediamo a Dio questa certezza buona.
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