martedì 8 agosto 2017
L'uno scriveva magnifiche poesie, al punto da essere accolto fra gli “immortali” dell'Académie Française e venire candidato al Nobel per la letteratura, mentre coltivava il suo grande sogno geopolitico dell'“Eurafrica”. L'altro, poco noto al grande pubblico, ha vissuto per oltre un secolo da “missionario dell'umanesimo” europeo, al servizio del Continente un tempo definito “della Speranza”. Il primo si chiamava Léopold Sédar Senghor, è stato presidente del Senegal dal 1960 all'80, è morto all'alba del terzo millennio a 95 anni. Il secondo, Giovanni Bersani, più giovane di nove anni, ha doppiato la boa del secolo di vita, congedandosi da questa terra a Natale di tre anni fa.
Lontanissimi quanto a fama pubblica (se uno oggi in Italia pronuncia il nome “Bersani” a quasi tutti viene in mente l'ex pci-pds-ds-pd Pierluigi), i due furono invece molto vicini come ideali e passione politica e soprattutto legati da profonda amicizia personale. Fu anche grazie a questo rapporto speciale, lo stesso che legava il senatore bolognese a un altro grande “padre fondatore” africano, il tanzaniano Julius Nyerere, che il dialogo euro-africano ha prodotto, dagli anni '70 del Novecento in poi, risultati importanti. Oggi però tutto rischia di essere compromesso dai venti di disgregazione che soffiano su entrambi i continenti.
Di tandem come quello Bersani-Senghor, soprattutto del loro slancio ideale, ci sarebbe invece un enorme bisogno. Per esempio in vista della scadenza dell'Accordo di Cotonou, firmato nel 2000 fra l'Ue e 79 Paesi dell'area cosiddetta “Acp”, sigla che sta per Africa-Caraibi-Pacifico. Raggiunta nella capitale economica del Benin, l'intesa sostituiva le storiche Convenzioni di Lomè, la prima delle quali, nel 1975, fu stipulata anche con il contributo rilevante di un grande europeista come Giovanni Bersani e di capi di Stato prestigiosi come Senghor e Nyerere, sulla scia dei primissimi accordi sottoscritti a Yaoundè fra l'allora Comunità economica europea e 18 ex colonie di suoi Stati membri.
Se si guarda indietro, va certamente riconosciuto il grande cammino percorso rispetto ai tempi nefasti del colonialismo (subito dopo la fine della seconda guerra mondiale ben 50 nazioni africane su 53 erano sotto il dominio europeo). E se si ricorda il tanto sangue versato nelle lotte per l'indipendenza e il clima internazionale di scontro, si deve ammettere che, nonostante i conflitti tuttora aperti, sono state costruite solide basi per compiere decisivi passi avanti, sulla via della collaborazione pacifica.
Ma il rischio è proprio quello di dimenticare da dove si è partiti. E di cedere, ovviamente da parte europea, alle rinascenti sirene neocolonialiste, all'insegna dell'indomabile “particulare” guicciardiniano. Basti pensare all'attiva e ripetuta presenza dell'ancora “neo” presidente francese Macron, nelle ex colonie transalpine e non solo (vedi Libia).
Adesso mancano due anni e mezzo alla scadenza di “Cotonou 2000”. I negoziati effettivi per la revisione partiranno l'anno prossimo, anche se la procedura di revisione è già in atto, avviata formalmente a novembre del 2016, sulla base di una comunicazione della Commissione di Bruxelles al Consiglio e al Parlamento. Il titolo è all'insegna della buona volontà: “Una rinnovata partnership con i Paesi dell'Africa, dei Caraibi e del Pacifico”. Ma a parte l'involontaria ironia dovuta al testo del documento, disponibile al momento solo nella lingua dell'unico Paese – la Gran Bretagna – in procinto di abbandonare l'Unione, l'approccio complessivo appare alquanto cauto e “freddo”. Certo non all'altezza delle sfide globali che si stagliano all'orizzonte comune dei due continenti. Invece, come ammoniva Giovanni Bersani poco prima di morire, il rapporto Europa-Africa merita oggi «un'attenzione ancora più intensa che in passato e un coinvolgimento quotidiano nella complessa evoluzione in atto». Magari coniugando quelle che furono le sue principali virtù: umiltà, pazienza e audacia.
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