La Centrale era deserta, quel mattino. Il Frecciarossa, vuoto. Anche a Termini, nessuno: soltanto polizia, che
chiedeva ai rari viaggiatori
i documenti. Avevo in tasca il tesserino di giornalista, e una lettera del direttore di Avvenire che garantiva che ero in servizio: dovevo raccontare la Roma del Covid. Era il 2020, l’inizio di aprile, quasi come oggi.
Presi un taxi. Contrariamente al solito, l’autista non aveva alcuna voglia di parlare. Percorremmo in silenzio strade assurdamente vuote. Mi guardavo attorno in una sensazione di irrealtà: Roma di aprile, i primi glicini sui muri dei giardini, la scalinata di Trinità dei Monti abbagliante nel sole, Trevi muta, abbandonata dalle comitive vocianti. Mai avevo visto Roma bella come quella mattina - ma tanta bellezza, senza gli uomini, sgomentava.
Mi pareva di camminare in un day after, dopo una guerra calamitosa.
Dov’erano i romani? Li immaginavo chiusi nelle case, a trattenere chissà come la voglia di correre dei bambini in pochi metri di cucina. E i più vecchi, soli magari, increduli di quell’esilio nella loro stessa città.
Dietro a Navona, per i vicoli stretti, risento il suono dei miei passi sul selciato. Saracinesche calate, non un bar aperto. A un giovane carabiniere di guardia al Pantheon chiesi se non esisteva, da qualche parte, un distributore automatico di caffè. Mi sorrise, lieto di incontrare qualcuno, e me lo indicò a bassa voce, come confidando un segreto. Tale era il silenzio, che veniva naturale non far rumore.
A Piazza Venezia, più grande ancora in quel vuoto, guardai alla finestra da cui il Duce annunciò che l’Italia era in guerra, il 10 giugno 1940. Quante foto in bianco e nero avevo visto sui libri di scuola, di quella piazza entusiasta e gremita. Ora, nessuno: solo lo stridere enigmatico dei gabbiani.
Cinque anni fa Roma mi sembrò una bellissima donna, addormentata forse, ma all’apparenza come morta. Indimenticabile. Per questo l’altro giorno, tra bus di pellegrini
e tassisti imprecanti, nel souk di spezie e frutta di Campo dei Fiori, tra moto rombanti e colonne di turisti già scottati dal sole, nel caos, ero così contenta. Eccola, Roma, nel suo tepore mediterraneo, nel suo disordine globale, nella secolare pigrizia del Tevere, nel Ponente della sera. Eccola Roma, viva. Quel giorno l’avevo vista immota, gli occhi chiusi, irrigidita: invece, nel cupo fondo del lockdown, la bella addormentata era viva.
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