XXVI Domenica
Tempo ordinario – Anno C
In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C'era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui (...).
Una parabola dura e dolce, con la morte a fare da spartiacque tra due scene: nella prima il ricco e il povero sono contrapposti in un confronto impietoso; nella seconda, si intreccia, sopra il grande abisso, un dialogo mirabile tra il ricco e il padre Abramo. Prima scena: un personaggio avvolto di porpora, uno vestito di piaghe; il ricco banchetta a sazietà e spreca, Lazzaro guarda con occhi tristi e affamati, a gara con i cani, se sotto la tavola è caduta una briciola. Morì il povero e fu portato nel seno di Abramo, morì il ricco e fu sepolto nell'inferno. Una domanda si impone con forza a questo punto: perché il ricco è condannato nell'abisso di fuoco? Di quale peccato si è macchiato?
Gesù non denuncia una mancanza specifica o qualche trasgressione di comandamenti o precetti. Mette in evidenza il nodo di fondo: un modo iniquo di abitare la terra, un modo profondamente ateo, anche se non trasgredisce nessuna legge. Un mondo così, dove uno vive da dio e uno da rifiuto, è quello sognato da Dio? È normale che una creatura sia ridotta in condizioni disumane per sopravvivere? Prima ancora che sui comandamenti, lo sguardo di Gesù si posa su di una realtà profondamente malata, da dove sale uno stridore, un conflitto, un orrore che avvolge tutta la scena. E che ci fa provare vergogna. Di quale peccato si tratta? «Se mi chiudo nel mio io, anche adorno di tutte le virtù, ma non partecipo all'esistenza degli altri, se non sono sensibile e non mi dischiudo agli altri, posso essere privo di peccati eppure vivo in una situazione di peccato» (Giovanni Vannucci).
Doveva scavalcarlo sulla soglia ogni volta che entrava o usciva dalla sua villa, e, impassibile, neppure lo vedeva! Non gli ha fatto del male, no. Semplicemente Lazzaro non c'era, non esisteva, lo ha ridotto a un rifiuto, a nulla. Ora Lazzaro è portato in alto, accolto nel grembo di un Abramo più materno che paterno, che proclama il diritto di tutti i poveri ad essere trattati come figli. Ma “figlio” è chiamato anche il ricco, nonostante l'inferno, anche lui figlio per sempre di un Abramo dalla dolcezza di madre. Padre, una goccia d'acqua sopra l'abisso! Una parola sola per i miei cinque fratelli! E invece no, perché non è la morte che converte, ma la vita.
Hanno Mosè e i profeti, hanno il grido dei poveri, che sono la voce e la carne di un Dio che si identifica con loro (ciò che avete fatto a uno di questi piccoli, è a me che l'avete fatto). Si tratta allora di prendere, come Gesù, il punto di vista dei poveri, di «scegliere sempre l'umano contro il disumano» (David Turoldo), con quel suo sguardo amoroso e forte davanti al quale ogni legge diventa piccina, perfino quella di Mosè (R. Virgili).
(Letture: Amos 6, 11-16; Salmo 145; 1 Timoteo 6,11-16; Luca 16, 19-31)
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