La linea verticale, la serie con Valerio Mastandrea appena conclusa il sabato su Rai 3, ha confermato in pieno il nuovo modo di raccontare la malattia in televisione. Di ospedali, si sa, è piena la tv. Si può dire che abbiano contribuito a farne la storia. I camici bianchi sono sempre stati “in prima linea”: dal dottor Manson della Cittadella, al collega Kildare, fino ai chirurghi di Grey's Anatomy. A prevalere è sempre stato il punto di vista del medico. Quasi mai quello del paziente. Da qualche tempo, però, con fiction come Braccialetti rossi (Rai 1) o docureality come I ragazzi del Bambino Gesù (Rai 3) e Kemioamiche (Tv2000), si è invertita la tendenza narrativa. Con forza si è iniziato ad affrontare il male chiamandolo con il suo nome, sfatando un tabù. Oggi nelle sceneggiature si legge la parola cancro o tumore. Prima si leggeva male incurabile. Ma non solo: si è iniziato ad affrontare l'argomento con il sorriso e l'ironia, senza però banalizzarlo negandone la complessità. Braccialetti rossi è stata, in questo, esemplare e ancor più lo è stata La linea verticale, che ha introdotto elementi di ulteriore novità con episodi molto snelli (di appena mezz'ora), a singoli temi, in cui sono stati mixati i generi, dal dramma alla commedia, con un tono tragicomico. Un punto di vista che attraverso il racconto autobiografico del regista Mattia Torre ha permesso di rappresentare senza sconti, nel bene e nel male, medici, infermieri e strutture ospedaliere. Tanto che, alla fine, il protagonista si dice «contento di stare qui» (in ospedale), con una malattia «che ha cambiato tutto. E anche se è difficile ammetterlo, ha cambiato tutto in meglio: mi ha aperto gli occhi, la testa, il cuore. Ora ho nuovi desideri, voglio stare in piedi, voglio vivere in asse su una linea verticale.... Questo tumore mi ha salvato la vita. Senza questo tumore sarei senz'altro morto». La lotta alla malattia diventa così anche forma di riscatto personale per sé e per gli altri. Esemplari in questo senso le storie delle donne di Kemioamiche, mogli e madri che lottano e soffrono perché vogliono vincere. Non tanto per se stesse, quanto per i loro cari, a partire dai figli. Insomma, nel nuovo modo di raccontare la malattia in tv, l'eroe non è più il medico, bensì quello che poteva sembrare l'antieroe per eccellenza: il malato.
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