Quando pensiamo al digitale, quasi mai lo associamo alla morte. E se lo facciamo, di solito è per via di tragedie con protagonisti ragazzi caduti da tetti dove erano saliti per fare selfie per certe esibizioni estreme trasmesse in diretta social. Eppure uno dei punti chiave del digitale è nel suo modo di trattare la morte. E non solo perché un gigante come Alphabet, proprietaria di Google, ha un reparto che lavora all’immortalità umana e nemmeno perché l’intelligenza artificiale promette di prolungare di molto la durata delle nostre vite anche controllando la nostra salute 24 ore ore su 24 (grazie agli anelli e agli orologi smart) e alla produzione di farmaci sempre più su misura. Il motivo principale è un altro: il digitale ci dà ogni giorno di più l’illusione di essere un mezzo per renderci in qualche modo immortali. Lo sanno bene coloro che già oggi dialogano con le repliche digitali dei propri cari, in audio e video, come se li avessero ancora davanti in carne e ossa. Per non parlare del fatto che il cosiddetto Metaverso, cioè il mondo digitale che già oggi molti abitano con i propri avatar, di fatto ci permette di prolungare la nostra esistenza nel digitale anche quando sarà terminata quella terrena. Con il risultato che fra decenni sarà probabilmente frequentato da moltissime repliche di persone che non ci sono più, le quali però anche solo nel digitale si incontreranno e
dialogheranno come fossero vive.
Come ha raccontato Enrico Lenzi su Avvenire nel suo reportage su Tanexpo, la fiera dedicata al funerale, ormai ci sono «soluzioni digitali per tutta la filiera funebre», dalla parte gestionale dell’impresa, agli annunci funebri online e alla creazione digitale di “libri firma” e gestione dei “messaggi di cordoglio”. Per non parlare dei «memoriali digitali» che comprendono «anche un box contenente un QRcode (applicabile anche sulla lapide al cimitero) con il quale accedere ai ricordi del defunto».
Non è fantascienza ma la realtà che abbiamo già a disposizione. Per capirla meglio, prendiamo i social. Tutti noi vediamo cosa accade ai profili delle persone che conosciamo e che non ci sono più. Alcuni familiari li popolano di ricordi del defunto, ottenendo mi piace, cuori e messaggi di affetto nella speranza di tenerne viva la memoria. Ma anche se nessuno dei familiari se ne occupa, gli algoritmi vanno per conto loro e ricordano a tutti i vivi la data di nascita di chi non c’è più, raccogliendo reazioni e messaggi sul suo profilo anche se né l’interessato né i suoi cari li vedranno. Le piattaforme ci danno anche indicazioni su come scrivere il nostro testamento digitale, cioè su come nominare un tutore del nostro profilo e quali parti delle nostre vite digitali permettergli di salvare e attualizzare. L’importante è non farci morire del tutto. Non tanto per una questione di affetto o di rispetto nei nostri confronti, ma perché per chi vive di numeri come le piattaforme digitali anche un utente è prezioso e non va perso neanche se muore (soprattutto se può essere ancora monetizzato in qualche modo).
C’è infine un dato interessante: ogni volta che qualcuno sui social dà notizia della morte di una persona famosa o anche solo di una conosciuta da una cerchia di persone, i commenti si popolano di «Rip». Come si trattasse di un saluto laico. Ma Rip, spiegano gli esperti, non è un acronimo laico perché deriva dalle parole finali dell’eterno riposo in latino: «Requiescant in pace». Quindi, senza magari saperlo, anche i laici che la usano sui social stanno in qualche modo pregando. © riproduzione riservata
© Riproduzione riservata
ARGOMENTI: