Identità che franano sotto i colpi della storia
venerdì 28 giugno 2024
Siamo molti oltre che uno, e il solo immaginarlo ci dà la possibilità di essere altri, o un solo, unico altro. La letteratura trova le parole per enunciare simile vertiginosa ipotesi con sottigliezza, mistero, veemenza. A Berlino, nel 1918, il primo conflitto mondiale è appena finito quando un uomo trova e si impadronisce di un passaporto, così “infilandosi” nella vita di un altro, del reale possessore del documento di identità, morto in guerra. In quella esistenza lui si infila “come in una cornice”; e da quel momento, così dice esprimendosi in prima persona, “so tutto, devo vivere la sua vita e la sua morte e so tutto, sto lì dietro come uno spettatore eppure sono me stesso e mi guardo, io che sono l’altro eppure sempre io, un uomo dietro la sua immagine”. Ich? ovvero Io? (Adelphi, prima traduzione mondiale di Margherita Belardetti, pagine 143, euro 18,00) fu scritto nel 1926 da Peter Flamm, pseudonimo dello scrittore e psichiatra Erich Mosse. Casi psichiatrici legati a traumi post bellici, Mosse ne aveva visti e curati molti, nei primi anni successivi al conflitto: da quel materiale psico-biografico, l’ispirazione per un romanzo lancinante dato il grado di immedesimazione con cui la (usurpata) vita di un altro è raccontata. Tutto sta nel punto interrogativo del titolo. Sono io, è un altro? Cambio io diventando un altro, o è l’altro, per impostura vissuto da me, attraverso me a cambiare? L’uomo che ha trovato il passaporto, l’usurpatore di identità, va nella casa dell’altro, e lì trova una moglie e un bambino che non sono i suoi ma che subito lo diventano, oggetti di artefatto ma immediatamente sincero amore. Lì, la nuova e sdoppiata vita dell’uomo incomincia per subito complicarsi e frammentarsi – e sempre meno, a ogni pagina, risolversi. Lui pure, l’impostore, è stato per sempre segnato dalla guerra, la cicatrice di una ferita gli ha tolto l’ombelico; è “corpo eppure non corpo, io eppure un altro, un nome, un destino, ma non un essere umano”. A gran passi (il ritmo serrato del soliloquio) la storia prosegue, avvincente, sconcertante, una vicenda alla cui radice c’è l’idea della autogenesi. Perché anche abitando le vite degli altri, il risultato continua a vertere intorno a una messa in discussione della propria: qui come sempre tutto gravita intorno a cosa sia essere sé stessi. “Ognuno porta miliardi di volte sé stesso in sé stesso” insiste a pensare e argomentare il protagonista/impostore. Nel mentre, vivendo la vita dell’altro sotto lo sguardo sempre più inquieto della moglie fedele, ignara anche se perplessa, lui stesso comincia a smarrirsi, a non raccapezzarsi. Pieno di voce, eppure ammutolito. La penna che scrive la storia non è penna di chi la storia l’ha vissuta, così come l’esistenza che si dispiega non è quella di chi ne porta il nome. Se possiamo essere uno e insieme altri, o uno e un solo, singolo altro, è anche in ragione della inautenticità di ogni vita nel non esser raccontata dalla sua “vera” voce. Nel 1933, emigrato per le leggi razziali, Erich Mosse a New York prese a esercitare con successo la professione di psichiatra (ebbe in cura tra gli altri il grande scrittore William Faulkner). Lui anche, come il protagonista di Io?, tallonato dal passato di quei lontani anni post-bellici, e da quel romanzo incandescente che l’angoscia gli aveva fatto partorire, scrivere. Lui uno, ma anche i molti che aveva avuto in cura, e l’altro sotto il cui nome aveva scritto, e l’altro che aveva inventato e reso impostore di un altro ancora. © riproduzione riservata
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