giovedì 28 gennaio 2021
Mi trovo a passare di questi tempi per il fantasma di City Life a Milano, o a percorrere l'altro fantasma, la City concepita tra la Stazione Garibaldi, piazza "Unicredit" e i grattacieli verdi dell'Isola e mi prende una solida tristezza. A cosa vogliono somigliare città come Milano? Sono incubi sortiti dalle notti ormai scadenti di Dubai? Qual è il senso di un centro città che diventa la sera un teatro vuoto di ombre? È possibile ancora pensare in questo modo, adesso, in pieno – ancora – Covid? E basta l'ipocrisia di un grattacielo verde per ricchi come se la soluzione della crisi climatica fosse che l'ambiente e la sostenibilità se la possono permettere solo loro? E l'invito al ritorno nei borghi non è un'ennesima arma retorica, per altro spuntata, lanciata dalla stessa piattaforma dei ricchi che pensano alla campagna come seconda casa?
Si ha l'impressione che gli architetti, gli urbanisti e i sindaci abbiano perduto credibilità. E soprattutto abbiano poca conoscenza della situazione e poche visioni di cosa significhi sostenibilità. Milano, tra le altre città italiane ha una percentuale ridicola di parchi, gestiti in maniera ottocentesca, come luogo dove portare i cani e dove ogni tanto portare i bambini. Non sono luoghi dove reinventare la vita urbana, sono solo e ancora decoro. Una rivoluzione urbana richiesta oggi dalla radicalità della crisi prevedrebbe ben altro: una sterzata a 180 gradi, un ripensare tutta la città come luogo della vita all'aperto. Ben diversa dalla concezione di uno zoning per centri direzionali, residence e gated communities (comunità protette perché autosegregate). Durante la pandemia i soli luoghi vitali sono rimasti gli assi della città del Diciannovesimo secolo, quelle strade – o gallerie – che consentono una vita collettiva difesa dai rigori o dalle offese dal clima, ma anche dalla tirannia dello spazio chiuso.
Il problema è che non ci sono più "attori" culturali e tecnici urbani credibili, non lo sono i professionisti del design e non lo sono i professionisti della politica. Manca una voce che, accanto alle organizzazioni ambientaliste che bene fanno la loro parte, siano capaci anche di proporre visioni, progettazioni per il futuro. Il nascente Museo delle Periferie diretto da Giorgio De Finis potrebbe essere lo strumento con cui ripensare la sostenibilità urbana. E forse qualche altra istituzione non compromessa con un passato di proteiforme conformismo con le esigenze dell'arretrato capitalismo italiano. Perché, siamo sinceri, il bubbone italiano sta proprio qui. Non solo non c'è più un Olivetti che pensi alla città come Communitas, ma non c'è nemmeno un "up to date" degli industriali – capaci di mettersi al pari con l'innovazione energetica, digitale, produttiva. La Fiat-Fca-Stellantis annaspa ancora sull'elettrico e speriamo che la fusione con Peugeot (Psa) l'aiuti a superare il gap di arretratezza, l'Eni continua con la sua dedizione petroliera (al direttore di Greenpeace, Giuseppe Onufrio, che li esortava ad avere più coraggio e mettersi al pari con le politiche tedesche sulle rinnovabili, un dirigente Eni, ha onestamente risposto: «Noi sappiamo fare buchi e tubi», motivo per cui si rincorre ancora una concezione dei gasdotti che è già superata).
Nell'insieme ci vuole una vera rivoluzione di paradigma, una Laudato si' che venga raccolta e riecheggiata nelle stanche stanze della politica dove si aggirano personaggi dotati magari di buona volontà, ma che non hanno mai viaggiato altrove che nella Bocconi o nei centri studi di deperite e inutili fondazioni. E la cosa più tragica è che tante Università si stanno salvando la faccia solo con la didattica online e certamente non con la ricerca-on-line, l'unica vera applicazione in cui la digitalizzazione permetterebbe vere rivoluzioni.
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