«Entro 10 anni oltre il 90% delle notizie sarà scritto da un computer». Da quando Kristian Hammond pronunciò queste parole, sono già passati diversi anni. Nel frattempo la sua azienda, Narrative Science, ha sperimentato con successo alcuni «generatori automatici di notizie» attraverso l'intelligenza artificiale in testate importanti come The Guardian e Washington Post. Il fenomeno non è nuovo ma in rapida espansione. Da ben cinque anni l'Associated Press sta utilizzando Wordsmith, «una piattaforma robotizzata che trasforma in notizie i dati contenuti in report di ogni tipo». La scorsa estate, Forbes ha invece implementato un nuovo sistema di gestione dei contenuti denominato Bertie, che scrive versioni «grezze» di articoli che i giornalisti poi possono trasformare in pezzi più ampi e compiuti (senza doverli scrivere da zero, risparmiando così tempo ed energie per fare meglio).
A questo punto mi immagino le facce di alcuni di voi a metà tra l'incredulo e lo spaventato. Aspettate a spaventarvi. Anche se tendiamo a dimenticarcelo, l'informazione è fatta da diversi ingredienti e produce diversi risultati. Per esempio, alcuni articoli che troviamo online sono realizzati ripubblicando interamente i comunicati stampa che arrivano alle redazioni. Uno studio di qualche anno fa diceva che l'80 per certo degli articoli veniva già allora redatto (in toto o in parte) a partire da comunicati stampa. Ammettiamolo: chiunque può fare «copia» e «incolla». Anche una macchina. Anzi, una macchina è più veloce e spesso fa meno errori degli umani.
La rivoluzione sulla quale dobbiamo concentraci non è solo quella dei robot in alcune redazioni, ma la diversificazione netta del modo di fare informazione che è già in atto nel digitale e che sarà sempre più accentuata. Da una parte siti con valanghe di notizie destinate a chi vuole un'informazione mordi e fuggi (notizie brevi, con titoli forti), dall'altra testate di approfondimento con inchieste, editoriali, analisi e reportage per un pubblico che non si accontenta. Per scrivere che nelle manifestazioni di Hong Kong ci sono stati dei feriti e degli arresti, probabilmente bastano dei dati grezzi e un robot-giornalista. Ma per spiegare cosa sta accadendo in quel Paese, perché accade e quali sono le eventuali ripercussioni a livello mondiale ancora per molto serviranno professionisti preparati e scrupolosi. Cioè, persone. Al momento una parte dell'informazione online è nel mezzo. Produce tanto ma con una qualità inferiore a quella che molti lettori vorrebbero.
Per questo motivo l'avvento dei giornalisti robot, dell'intelligenza artificiale e degli algoritmi che scelgono quali notizie dare e come darle, non solo (al momento) non deve spaventarci, ma dobbiamo considerarlo uno stimolo a migliorarci.
Tanto più che nella società dell'«information overload» (cioè, del «sovraccarico di informazioni») avremo sempre meno bisogno di siti tutti uguali che sfornano le stesse notizie, e sempre di più di giornali e giornalisti che spieghino e facciano ragionare. Che servano la loro comunità. Solo così l'informazione tornerà ad essere recepita come un valore per il quale vale la pena di spendere (al momento, secondo l'ultimo Digital News Report 2019 dell'Università di Oxford e del Reuters Institute, solo il 9% degli italiani è disposto a farlo nel digitale).
Questa sfida non riguarda solo i professionisti dell'informazione, ma tutti. Perché il modo col quale vengono confezionate e distribuite le notizie finisce con il cambiare la percezione della realtà e la consapevolezza di ognuno di noi. Lo vediamo già oggi: intossicati dalle polemiche di giornata, dalle "curiosità" e dalle notizie trash che spuntano sugli schermi dei nostri smartphone finiamo per perdere fatti importanti. E così quelle che crediamo "notizie" (e che spesso così notizie non sono) diventano pietre d'inciampo nel nostro cammino di crescita come persone e come cittadini.
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