sabato 2 marzo 2024

Gentile Tarquinio,

ho trovato del tutto fuori luogo le cariche della Polizia sui cortei dei ragazzi pro-Palestina. Quando la protesta, criticabile quanto si vuole, si svolge, come a Pisa, a Firenze, in modo pacifico e responsabile, non si giustifica una reazione violenta delle forze dell'ordine, con agenti che hanno colpito più volte studenti minorenni. Manifestare è un diritto sancito dalla Costituzione e il dissenso è l'essenza della democrazia. Stiamo vivendo problemi e situazioni inquietanti a partire dalle guerre. E i giovani sono i primi a risentirne: scendono in piazza, per istinto o senso critico, perché sanno che senza la pace il loro futuro rimane incerto, precario. Illuminate e sempre attuali, a questo proposito, le parole di Ernesto Balducci, un profeta della pace. Con le nuove generazioni occorrono dialogo e ascolto, non repressione. Non stanno esagerando le forze dell'ordine e il governo di destracentro nella gestione dell'ordine pubblico?

Domenico Mattia Testa


Gentile Marco Tarquinio,

mi occupo da diversi anni di formazione in ambito universitario e sindacale, ma recentemente anche attraverso il coordinamento di un gruppo parrocchiale di giovani tra i 16 e i 25 anni. Conosco la voglia di partecipazione dei più giovani. L’ho verificato “sul campo” anche all’ultima Gmg, quella di Lisbona dell’agosto 2023. E diverse situazioni negli ultimi mesi, e anche in questi giorni, mi hanno portato a riflettere sul punto. Provo a tirare alcune somme, in cinque punti. Innanzi tutto, la relazione personale: non esiste veicolo efficace di contenuti senza stabilire una narrazione comune. Educatori e ragazzi, pur nel rispetto dei ruoli, possono fare un cammino comune volto, in ultima analisi, a trovare cornici di senso sempre nuove rispetto alla tematica trattata. L’esortazione “seguite ciò che dico e non ciò che faccio” non funziona mai. Il secondo punto fondamentale, quindi, è mostrarsi il più possibile allineati con la propria ricerca di senso, prima di trasmetterla all'esterno. La capacità di attualizzare i contenuti rendendoli pane per il quotidiano, è la terza grande sfida. Spiegare la Misericordia e le sue opere, ad esempio, oggi vuol dire parlare del fenomeno del bullismo, della necessità di vivere in comitiva in modo includente, di ascolto profondo dell'altro, di condivisione dei saperi appresi. Connesso a questo terzo punto, vi è l'utilizzo di modalità didattiche differenti rispetto alla sola classica lezione frontale. Esempi concreti consentono di calare un contenuto teorico nella vita quotidiana, consegnando uno strumento nuovo, fattivo, non formale di lettura del proprio presente. Le forme di dibattito tipo tavola rotonda sono utili per condividere le esperienze, ampliare lo sguardo sull'altro, fornendo peraltro all’educatore un feed-back continuo, fatto di chiavi di lettura sempre nuove. Questo rapporto biunivoco vale di più di qualsiasi aggiornamento professionale teorico! Un quarto spunto importante viene dalla parabola dei talenti. Interessante ricordare ancora una volta che l’etimologia di educare è educere, cioè tirar fuori: si educa prima di tutto facendo emergere una tensione interna alla propria domanda e alla propria vocazione. D’altra parte, l’esortazione gnothi sautón – conosci te stesso – era già presente come massima della Grecia antica e sembra tornare costantemente anche nelle filosofie orientali, oltre che nella più moderna psicoanalisi, da Jung in poi. Ed eccoci, infine, a un quinto, ultimo, cruciale, snodo. Il sapere che oggi più interessa è quello trasversale: non sapere tutto del cristianesimo (o dell'economia, o della letteratura o delle neuroscienze), ma saperne scorgere i punti cardine anche in un pensiero apparentemente lontano dalla nostra appartenenza più prossima. È l'insegnamento, tra i tanti, di Platone e di Tommaso Campanella, che immaginavano comunità utopiche di condivisione di beni e saperi, a disposizione di tutti e di ciascuno. Ovviamente, caro Tarquinio, sono solo opinioni personali, frutto della mia esperienza.
Marco Rotili

Caro Tarquinio,
sono rimasto solo. Mio padre aveva 33 di anni più di me e ho sempre avuto molto amici più grandi di me: Arturo 8, Ettore 17 e Giuseppe 20. Tutti, tranne mio padre, li ho scelti io. E loro hanno scelto me. Per loro ero un giovane con cui confrontarsi, per me erano maestri di vita. Il dialogo fra generazioni diverse mi è servito per imparare dall’esperienza e io ho dato a loro la forza di rimettere in discussione idee troppo consolidate. Oggi mi è rimasto Giorgio, anche lui di vent’anni più grande di me , lui mi ha insegnato a guardare con occhio critico l’Arte . Mi mancano, ma ancora di più mi manca l’amicizia di giovani che abbiano voglia di confrontarsi con una persona anziana. La mia esperienza culturale e umana mi fa dire con certezza, che qualsiasi decisione presa sul lavoro, nell’impegno sociale o politico avrà i risultati migliori se presa con amici o collaboratori di età diverse ma sempre con la presenza di una persona, donna o uomo non ha importanza, con età matura. È questo che auspico per i giovani di oggi.
Enrico Reverberi

Conoscenza e riconoscimento, rispetto e ascolto: ecco gli ingredienti essenziali del dialogo che fa crescere, a tutte le età, e che fonda in sensato la relazione tra generazioni diverse. Un rapporto di fiducia e di reciproco sostegno, di formazione e di cura che è nel Dna stesso dell’umanità e che ha un posto speciale nella storia della nostra gente. Questa relazione giusta tra persone di diverse età è una forma dell’amore, e comunque ne è un parente stretto. Contribuisce a incarnarlo, realizzando al tempo stesso il migliore interesse di tutti: giovani, adulti e anziani. Lo scrivono, oggi, ognuno a suo modo, i lettori Testa (che ringrazio per il rapido ma puntuale ricordo di padre Balducci), Rotili e Reverberi. Uno dei nomi di tutto questo è “patto intergenerazionale”. Una realtà, che quando c’è, e deve poterci essere, dà forza e spinta propulsiva a una comunità, ne alza e allarga l’orizzonte. Quell’orizzonte comune che i colpi mal assestati e il sospetto e la polemica insensati e violenti, parenti stretti dell’odio, congiurano per abbassare tristemente.
C’è chi custodisce questo bene prezioso, questa relazione feconda. E sono tanti, tantissimi: nella familia, nella scuola, nelle reti associative, nelle parrocchie, nel buon vicinato, in quel sentimento – religiosamente e civilmente ispirato – che papa Francesco chiama «amicizia sociale», tappa decisiva sulla strada della fraternità che siamo chiamati a costruire in mezzo alle contraddizioni (alle gioie e alle speranze, alle sofferenze e alle fatiche, alle belle diversità e alle lancinanti disuguaglianze) della nostra vicenda personale e collettiva. Operano anche nelle istituzioni, che ai vari livelli di rappresentanza e di servizio finiscono spesso per essere oggetto di un discredito e di un pregiudizio tanto veementi quanto superficiali. C’è però anche chi fa, invece, l’esatto contrario. Anche in Parlamento e nel patrio governo. E più ha potere peggio fa.
Si tratta di un grosso manipolo, decisamente arrogante nell’autoassolversi e autogiustificarsi e nel puntare addirittura l’indice e muover guerra su chi concepisce e genera solidarietà. Viene costruito così un pesante “clima” di inimicizia. Quel clima nel quale si possono lasciare affogare, giusto un anno fa, a Cutro, davanti alle nostre coste, esseri umani inermi e bisognosi di tutto, vittime migranti di guerre che non ci interessano più (in Afghanistan) o che non ci hanno mai interessato (in Siria). In questo “clima” – è già accaduto, a drammatica intermittenza, nella nostra storia: pensate alla Genova del G8 del 2001 – possono darsi anche le manganellate gratuite, violente e irridenti scagliate a Pisa contro alcune decine di giovanissimi studenti del Liceo artistico “Russoli” che stavano manifestando pacificamente per invocare il cessate il fuoco nella terribile guerra in corso tra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza.
Le manganellate pisane sono un pezzo del tradimento del sentimento e del patto intergenerazionale che purtroppo minaccia di consumarsi sempre più. E la nebbia di disinformazione che si è cercato, e ancora si cerca, di alzare per ridimensionare l’accaduto, accusando quei ragazzi e quelle ragazze, è sbagliata e rischiosa, perché in essa si nasconde e pretende di legittimarsi pure la delegittimazione del sacrosanto presidio che le forze dell’ordine, in una democrazia come la nostra, sono e devono continuare a essere. I manganelli, sul finire della scorsa settimana, hanno insomma colpito giovani cittadini e cittadine in formazione e hanno ferito anche me e tanti altri che conoscono, riconoscono e rispettano il lavoro delle forze dell’ordine e non sopportano neppure episodi come l’assalto portato, pochi giorni fa a Torino, da un manipolo di “antagonisti” di estrema sinistra agli agenti di una volante.
Ma due torti non fanno una ragione. L’attacco violento e inaccettabile ai poliziotti torinesi non cancella i fatti pisani, sottolineati dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, con puntuale, allarmata e saggia tempestività mentre altre istituzioni si segnalavano prima per un improvvido silenzio e poi per una loquacità senza lucidità. L’insostituibile azione di vigilanza e di tutela delle forze dell’ordine è infatti organizzata e predisposta, e deve attuarsi, per tenere aperta e libera e sicura ogni piazza italiana. Perciò, come ha ricordato a tutti Cesare Mirabelli, presidente emerito della Consulta, le riunioni in spazi aperti e pubblici vanno concordate per potersi svolgere nel modo migliore. Non per essere soffocate e impedite. La libertà di manifestare è uno dei princìpi cardine della Costituzione, e archivia definitivamente il tempo delle riunioni proibite o delle adunate solo a comando dell’Italia fascista. La gravità di quanto accaduto a Pisa, certificata da testimonianze e video inequivocabili, è tutta nella sproporzione aspra e diseducativa delle repressione attuata contro quei ragazzi e quelle ragazze. Si proporranno appigli formali per spiegare e tentare di giustificare tutto questo? È probabile, e in parte l’operazione è già in atto a livello politico, ma io spero ancora di no. Considero perciò un ottimo segnale la decisione di autoidentificarsi presa da tutti i poliziotti protagonisti delle cariche pisane. Serve chiarezza e nettezza, persino a prescindere dagli approfondimenti giudiziari del caso. Perché i fatti di Pisa rischiano di “sporcare”, come ha ammonito il presidente Mattarella, l’autorevolezza degli uomini e delle donne delle forze dell’ordine. Persino di quelli e quelle che svolgono un benemerito lavoro educativo accanto e insieme agli insegnati in tante scuole del nostro Paese, mostrando il vero volto di chi vigila sulla libertà e la sicurezza di tutti e contrasta il cancro di ogni società: la malavita, in tutte le accezioni possibili. Questo non è giusto.
Il ministro dell’Interno Piantedosi riferendo giovedì in Senato sulla gestione dell’ordine pubblico nel nostro Paese ha detto molte cose, non tutte quelle che ci si aspettava e che dovevano essere dette. Conservo poche parole, le uniche – a mio parere, per quel che vale – davvero centrate a proposito delle cariche di polizia a Pisa: «Quando si giunge al contatto fisico con ragazzi minorenni è comunque una sconfitta ed è ancor più necessario svolgere ogni verifica con puntualità, obiettività e trasparenza». Così dev’essere. E venerdì scorso Paolo Borgna lo ha rammentato da par suo sulle nostre pagine. Quei duri colpi di manganello han fatto male a tanti, e pure alla nostra Polizia.

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