C'era un valore aggiunto, nel discorso che papa Francesco ha pronunciato sabato 18 maggio incontrando i membri dell'Associazione della Stampa estera in Italia, oltre ai tanti già evidenziati dal commento di Mimmo Muolo qui su "Avvenire" ( tinyurl.com/y3ns56zm ) e dagli altri che ho potuto leggere. Mi riferisco alla sottolineatura di quanto l'avvento della Rete abbia modificato il sistema dei media e di conseguenza il lavoro giornalistico. Non è la prima volta che il Papa dà prova di questa sua consapevolezza; tuttavia credo che sia sempre utile metterla in luce, a maggior ragione per il fatto che, in quest'ultimo discorso, essa appare in forma trasversale. Le cinque citazioni esplicite sono infatti disseminate lungo il testo: si parla per due volte di «social media», e poi di «era digitale», «tweet» e «Internet».
In un caso si ricorda che, attraverso la Rete, è di gran lunga maggiore il rischio che «un'informazione falsa» si diffonda «al punto da apparire autentica»; in un altro, si evidenzia che è specialmente sul web che si riscontra l'uso di un linguaggio «violento e spregiativo, con parole che feriscono e a volte distruggono le persone». Entrambi questi fenomeni hanno a che fare con il fatto che, come sottolinea Francesco citando Benedetto XVI, «nell'era digitale» tutti, e non solo i professionisti, sono «attori» della comunicazione: «Nel male come nel bene il nostro comportamento ha un influsso sugli altri».
Così il riferimento del Papa alla «grande responsabilità» che incombe su noi giornalisti a motivo del «ruolo indispensabile» che ricopriamo si allarga, implicitamente a tutti quanti oggi, attraverso la Rete, partecipano di questo ruolo, anche solo perché condividono sul gruppo WhatsApp della parrocchia una notizia, un bisogno, una preghiera. La regola per calibrare il linguaggio Francesco la trae da Francesco di Sales, ma potrebbe finire dritta nei nostri galatei social: «Usare le parole come il chirurgo usa il bisturi».
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