Ciò che chiede fatica, quasi sempre restituisce bellezza. Lo suggerisce un vecchio schema piuttosto in disuso, che però, ogni tanto, non è male tornare a visitare. Ma non è sempre così. Ricordo di averci pensato guardando i corpi dei marciatori durante le Olimpiadi. Per loro la fatica è braghe corte e andamento da ubriaco, chilometri di sacrificio e di smorfie. La marcia arriva al traguardo un passo alla volta, barcollante, di tacco e di punta. È la proletaria dell’atletica, spessa, dura, sgraziata: sta ai margini della strada. Ma chi corre, in generale, lo sa: quando chiesero a Emil Zatopek di eliminare quella continua e terribile smorfia di dolore dalla sua faccia, rispose che non poteva permetterselo: «Non ho abbastanza talento per correre e sorridere nello stesso momento».
È così. Lo sport non sempre riesce a plasmare i corpi. Li trasforma in un pensiero che soffre e suda, a volte li prende in prestito e li piega allo scopo. Come è stato nel caso di Primo Carnera per l’Italia fascista, di Heidi Krieger per il socialismo di stato della Germania Est, di George Best per il Sessantotto, di David Beckham per l’industria del glamour, di Ronaldo per quella dei soldi. Nei corpi dei campioni tutto accade e tutto ritorna: lo sport crea e guarisce ferite, cicatrici, infelicità. Lavora sulla carne per riparare l’anima.
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