Quando si seppe dalla radio e dai giornali della tragica morte di Guevara, il “Che”, io piansi. Mi era successo poche volte per un personaggio pubblico, per l'attore John Garfield - ero un ragazzo - che morì d'infarto a Washington la notte prima di deporre davanti alla Commissione McCarthy, e per Fausto Coppi, pensando però al dolore di mio padre, le cui ambizioni di “corridore ciclista” erano state frustrate dal richiamo in guerra. Fosse morto anche Fidel al tempo del Che, o prima, forse avrei pianto anche per lui. La parte più vivace della mia generazione aveva creduto appassionatamente nella “novità” delle guerriglie latino-americane, una «rivoluzione nella rivoluzione» secondo Régis Debray, e anche nella novità del maoismo, che predicava una rivoluzione di contadini al posto della menzogna stalinista di un centralismo operaio dichiarato e mai rispettato. E la rivoluzione cubana ci sembrava più simpatica della cinese, più vicina e più umana. Poi ci fu il “caso Padilla” e si capì che, ancora una volta e con una rapidità sconcertante, a una rivoluzione seguiva una normalizzazione e una sorta di controrivoluzione, di pensiero unico imposto dall'alto. Fui invitato due volte a Cuba in quegli anni, ma preferii non andarci, dicendo a me stesso che l'avrei fatto solo dopo la morte di Fidel... Di tempo ne è passato tanto, e adesso me ne è passata la voglia... Si è scritto di Fidel, in questi giorni, tutto il bene e tutto il male possibile, ed è superfluo aggiungere altro. Ed è giusto riconoscergli i meriti che indubbiamente ha avuto, insieme a tutti i demeriti, e pensando però alla collocazione della sua piccola isola tra i giganti Usa e Urss, alla loro guerra non dichiarata, ma combattuta servendosi di altri popoli e su altri terreni che i loro, “fredda” tra di loro ma “calda” di morti non loro. Credo però che la rivoluzione cubana avrebbe potuto avere internamente esiti molto diversi da quelli che ha avuto, se per esempio al posto di Fidel ci fosse stato il Che. Mi illudo? Non credo, e in ogni caso è bello pensare che, nonostante tutto, si fosse sfiorata una rivoluzione necessaria e diversa, ma forse aveva ragione Trotskij, anche lui non esente da colpe, quando parlava di «rivoluzione permanente». Sì, sono uno di quelli che considerano la rivoluzione (il cambiamento con gli oppressi e non solo in loro nome) una necessità storica imprescindibile, altrimenti la storia è solo storia di chi comanda, storia dei ricchi e dei forti. La storia mi insegna che a ogni rivoluzione succede una burocrazia di potere in cui vince il peggio, ancora il Potere. E che ogni volta bisogna ricominciare, commisurando però i mezzi ai fini e insistendo sul massimo di purezza possibile dei mezzi, sia prima che dopo la conquista del potere.
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