«Dove la Pianura Padana cede posto alle millenarie colline moreniche, in un paesaggio di dolci saliscendi, tra il confine del fiume Ticino e la brughiera che assedia l'aeroporto della Malpensa, sta quella zona industriale che si definisce ora del "basso Varesotto" e che prima del fascismo era nota come l'"alto Milanese"». Con questo incipit, largo e maestoso, di manzoniano ricalco, si apre la biografia molto ben scritta che Giuseppe Baiocchi ha dedicato al fondatore della Lega Nord, intitolandola semplicemente Bossi. Storia di uno che (a modo suo) ha fatto la storia (Lindau, pp. 224, euro 16). Una biografia «né complice né ostile», avvalorata dalla testimonianza diretta dello stesso Baiocchi che in 23 anni da cronista del Corriere ha più volte incontrato Bossi, e che nei tre anni di direzione del quotidiano leghista La Padania (1999-2002) ne è stato a ravvicinato contatto. La partecipe prefazione di Giuseppe De Rita, in sintonia in quanto «antico frequentatore del localismo economico e sociale», mette chiaramente a fuoco i tre punti di forza della Lega: il federalismo, naturalmente; poi l'opzione strategica di farsi «sindacato del territorio»; e, ancora, l'aver formato «sul lavoro» una classe dirigente nazionale. Riconoscimenti non di poco conto, che Baiocchi sviluppa nei dodici capitoli del libro, rivelando del Senatùr anche lati insospettati, quali la competenza in una discussione sull'Orestea di Eschilo. Fino a 38 anni, il Bossi (Cassano Magnago, 19 settembre 1941) era rimasto «scioperato e inconcludente»: diploma di liceo scientifico da privatista, scuola Radio-Elettra, studi di medicina interrotti, lavoretti nel laboratorio di chimica dell'Università di Pavia. Ma proprio lì, in quell'università, nel febbraio 1979 avviene l'incontro con l'autonomista valdostano Bruno Salvadori, che gli instillò l'Idea che gli avrebbe cambiato la vita: il federalismo. Da allora l'Umberto ne diverrà apostolo, dapprima con giornaletti e micro-incontri nel Varesotto, poi con la partecipazione alle elezioni amministrative; finché, nel 1987, la Lega riuscì a eleggere un deputato (Leoni) e un senatore: Bossi stesso. È inutile ripercorrere tutto il curriculum di Bossi, dall'alleanza con Berlusconi fino al «ribaltone» del 1994, e poi con il rinnovato patto di ferro con il Cavaliere, dal 2008 a oggi. Contano le idee, le strategie pur contraddittorie del leader indiscusso, che oscillano dalle tentazioni separatiste ai rituali pagani alle sorgenti del Po, ma sempre con proclamazioni solo verbali, perché i leghisti, pur con gli elmi da vichinghi, «non hanno mai rotto neanche un vetro»: le occasionali intemperanze sono sempre state personalmente frenate da Bossi. Anche i rapporti con la gerarchia ecclesiastica, pur nelle polemiche contro i «vescovoni», si sono andati addolcendo, tanto che la curia di Milano, per le elezioni del 1996 usò uno slogan espressivo: «Votare la Lega non è un peccato, ma è un errore...». Peraltro, sui valori «non negoziabili» (aborto, adozioni gay, libertà scolastiche e altro), Bossi è sempre stato dalla parte giusta, pur essendo divorziato e risposato. Restano discutibili altri aspetti della politica leghista, per esempio riguardo ai problemi dell'immigrazione. L'ictus che ha colpito Bossi (anzi, il Bossi, come lombardamente scrive Baiocchi) ha certamente lasciato segni non solo somatici. C'è più riflessione, più maturità istituzionale in un partito la cui evoluzione è tutt'uno con la biografia del suo fondatore e leader. Nelle elezioni amministrative dello scorso anno la Lega ha raggiunto il 12,28% su scala nazionale, conquistando due regioni importanti come il Piemonte, con Roberto Cota, e il Veneto, con Luca Zaia. Baiocchi non azzarda previsioni sul «dopo», un «dopo» in cui la Lega è solo un elemento, pur importante, di un complesso scacchiere. Per ora, comunque, si può ben dire che Umberto Bossi è «uno che (a modo suo) ha fatto la storia».
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