Nella contemporaneità ci scopriamo sempre più immersi in una cultura dove la parola è sovrabbondante, dove a ogni minuto si producono milioni di parole, con il rischio di vederne impallidire il valore. A forza di essere ripetute, le parole si consumano ed entrano velocemente nel vortice dell'insignificanza e dell'oblio. Eppure sappiamo che una parola non è soltanto una parola. Non è certamente per caso se essa fiorisce dal nostro interiore. È un bagliore espressivo, un soffio della nostra identità profonda, uno strumento di relazione, un dizionario che ci descrive, una leva che ci proietta in avanti. Una parola non è soltanto una parola: è sedimentazione dell'esperienza vitale, evocazione della memoria, ponte fra presente e futuro. La parola ci distingue da tutte le altre creature, poiché noi siamo esseri di parola, attraverso di essa conosciamo e ci facciamo conoscere.
In una lettera scritta in Mesopotamia agli inizi del lontanissimo XVII secolo a.C., si può leggere questo commento riguardo a una missiva ricevuta: «Le tue parole mi hanno riempito di gioia. Leggendole, avevo l'impressione che tu e io ci incontrassimo e ci abbracciassimo». Sempre a questo proposito, si racconta che gli antichi faraoni d'Egitto creavano biblioteche nelle città più remote del regno e facevano così scrivere sopra l'ingresso: «Farmacia dell'anima». Credo che cogliessero bene il significato della parola.
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