Ho parlato di Jannik Sinner molte volte in questa rubrica. Ricapiterà e anche per un bel po’ di anni, ma oggi non dedicherò questo pezzo al campione di Sesto, in Val Pusteria. Non parlerò del Sinner tennista, forte – almeno in questo momento – da essere in grado di vincere letteralmente di prepotenza anche contro i suoi avversari più alti in ranking. Non parlerò del Sinner campione esemplare che corre a prendere una bottiglia d’acqua per uno spettatore che si è sentito male sugli spalti, nel match di esordio contro De Minaur. Non parlerò del Sinner gentiluomo che al microfono, dopo la vittoria, si complimenta con il suo avversario (questo lo fanno in tanti) e poi stupisce tutti cercando l’arbitro dell’incontro, il brasiliano Carlos Bernardos, prossimo alla pensione, e gli dice: “Grazie mille Carlos, che carriera straordinaria!”. Non parlerò del Sinner figlio che fa commuovere i genitori, con tanto di lacrima materna, ringraziandoli per averlo lasciato sempre scegliere liberamente che cosa fare, nello sport e nella vita. Non parlerò della mentalità del Sinner, appena ventitreenne, ma capace di fare una stagione che definire straordinaria è poco, con sul groppone la grottesca faccenda della Wada. E non parlerò neanche della lucidità del Sinner atleta che in finale ha girato il match contro Taylor Fritz, con una palla corta sul 3-3 del primo set che ricorda tanto il cucchiaio di Totti contro l’Olanda. No, ormai lo avrete capito: oggi non parlerò di Jannik Sinner.
Parlerò dei 3.000.000 di telespettatori e dei 15.000 tifosi in presenza
in delirio e in preda a una sinnermania non reversibile; di gente che il lunedì mattina entra in ufficio a fare l’impiegato, il cassiere in banca o l’assicuratore e domenica era sugli spalti con una parrucca arancione; degli albergatori che ti dicono che Torino così non la vedevano dal 2006; del pensionato sul tram che porta in testa un berretto con una carota ricamata e telefona, probabilmente a casa, per dire: “ma hai visto che roba?”. Parlerò della bimba che accompagna Sinner in campo e poi gli chiede: “Anche tu hai paura?”. Parlerò delle mamme che abbracciano i figli e dei papà che abbracciano le figlie di fronte a uno spettacolo sublime, parlerò di un palazzetto intero che sa stare in silenzio, con i cellulari in modalità silenziosa, senza un flash acceso, cosa che ormai non succede più neanche durante i minuti di silenzio o nelle commemorazioni ufficiali, e sa applaudire lo sconfitto Fritz con un’ovazione da pelle d’oca. Parlerò di adolescenti che riescono a stare più di un’ora concentrati e con gli occhi attenti su una cosa che non sia lo smartphone; del proprietario del chiosco che dice che lui fa solo panini, ma che magari fosse così anche solo due giorni al mese; di sportivi e politici famosi che esultano, ma poi sanno stare al loro posto, senza rubare la scena. Parlerò di gente normalissima e tutt’altro che famosa, che esce dall’Arena con gli occhi incendiati di bellezza. Insomma, sfilate via Sinner dalla nostra domenica e questo mondo, che già è brutto di suo, sarebbe ancora più infelice. Jannik, mentre la cronaca ci presenta personaggi che possiedono denaro, tecnologia e progetti distopici da sembrare i supercattivi dei fumetti, sembra davvero l’eroe buono, il Clark Kent di cui abbiamo bisogno. La meraviglia non è tanto quello che fa lui, in campo: è quello che fa a noi, fuori dal campo. E quanto ci spinga ad essere qualcosa che avevamo perfino dimenticato di poter essere.
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