«Io non sono razzista ma...». Chi parla così potrebbe aver ragione. No, non è razzista. Non detesta tutti coloro che indossano una pelle "diversamente bianca". Non è come Hitler che si rifiuta di stringere la mano a Jessie Owens, che nel 1936 arriva a Berlino, contro il parere di una fetta consistente del Comitato olimpico Usa e dei suoi stessi fratelli neri, e "rapina" in poche ore quattro medaglie d'oro. Chi parla così con un Owens si farebbe volentieri un selfie e se ne vanterebbe con i suoi compari che, pure loro, «io non sono razzista ma...».
"Ma" che cosa? Probabilmente costui non è propriamente un razzista, ma molto peggio. Soffre di aporofobia, parola (parolina, parolaccia: fate voi) che in Italia è usata da pochi studiosi e tecnici, ma non è entrata nel linguaggio comune e forse mai ci entrerà. È formata da due termini greci: áporos, senza risorse, e phóbos, timore: paura dei poveri. Loro, i poveri, sono disprezzati e messi ai margini. Se in Italia sbarcassero frotte di nordafricani ben vestiti, con il portafoglio gonfio di carte di credito, qualcuno strepirebbe all'invasore? Ma prego, accomodatevi pure. Accade già per i campioni dello sport, le modelle, tutti coloro che appartengono al grande circo del successo. Se sei ricco, il colore della tua pelle, la tua religione, la tua terra d'origine sono dettagli irrilevanti.
Il povero nero è disprezzato non perché nero, ma perché povero. I reati d'odio colpiscono un senza dimora su due. Ma perché? La spiegazione è oggettivamente fastidiosa e quindi difficile da digerire. La verità va cercata nella natura profonda della consumerist society a cui appartiamo assai più profondamente di quanto potremmo supporre, ossia con il corpo, ma anche con l'anima. Se noi siamo quello che consumiamo, e misuriamo noi stessi e siamo misurati in base ai nostri consumi (abiti, automobile, telefonino, vacanze... tenore di vita in genere), quando lo perdiamo non siamo più nessuno. Può accadere per ingordigia, perché spendiamo più di quanto potremmo; o per disgrazia, perché perdiamo il lavoro, improvvise spese mediche prosciugano le nostre risorse, per un qualsiasi altro imprevisto. Chi diventa povero perde l'identità, se l'identità dipende da ciò che consuma.
Lo spiega bene il sociologo Pietro Piro nel suo libro Perdere il lavoro, smarrire il senso. Il povero «è il fantasma della menzogna in cui viviamo». La menzogna: i poveri sono l'altro volto della consumerist society, gli scarti che essa necessariamente produce, scarti anche umani. È crudele dirlo ma c'è chi – i devoti del capitalismo predatorio, gli idolatri del consumo – ha bisogno dei poveri, perché più aumentano gli esclusi, più i gruppi di privilegio possono sentirsi simili agli dei. Loro hanno vinto per i loro meriti; i poveri hanno perso per i loro demeriti e per questo vanno disprezzati. Una colossale menzogna, ma tant'è.
Aporofobia è stata dichiarata "parola dell'anno" nel 2017 in Spagna, entrando nel dizionario della Real Academia. L'ha portata alla ribalta la filosofa Adela Cortina, autrice di Aporofobia, el rechazo al pobre ("Il rifiuto del povero"). Espulso dal circo del consumo, il povero precipita in un vuoto socio-politico, ritrovandosi senza ruolo sociale. Il povero, privo di capacità contrattuale, diventa un individuo "non necessario". Inutile, superfluo, sacrificabile. Indegno di pietà e compassione. Un perdente senza diritti. Di qui tutti i luoghi comuni che riempiono bocche avide e aride: «Prima noi, poi gli altri»; «Perché fanno tanti figli se sono poveri?» (come se loro, i ricchi, i figli li facessero) e «Io non sono razzista ma...»: hai ragione, sei molto peggio.
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