Dollaro vicino dall’euro Europa lontana dagli Usa
domenica 24 novembre 2024
L’Italia supera più che indenne gli esami d’autunno delle agenzie di rating. Vale quel che vale, ma dopo che venerdì sera Moody’s ha ribadito la valutazione Baa3 (equivalente a una sorta di 6 e mezzo), il bilancio finale di questa raffica di giudizi vede due conferme (oltre a Moody’s anche S&P) e addirittura due ritocchi al rialzo, con
il miglioramento delle aspettative da parte di Fitch e Dbrs. C’è chi sperava addirittura in qualcosa di più, ma in fondo si tratta di una pagella niente male per un’economia abituata alle bocciature. Se il rating ha un valore relativo, però, non è solo perché si tratta di giudizi «irragionevoli», come stigmatizzato dal presidente Mattarella appena qualche settimana fa, quando aveva denunciato la mancata presa d’atto della ripresa post pandemica. Il problema, piuttosto, è nei segnali tutt’altro che positivi che arrivano da chi ci sta intorno: l’Europa. C’è un dato su tutti che certifica la debolezza del Vecchio continente: è l’euro, che si avvicina alla parità con il dollaro. Dal lancio della moneta unica, il primo gennaio 1999, è capitato appena due volte che per avere un dollaro bastasse un euro o anche meno: l’ultima parentesi, durata qualche settimana, risale all’autunno del 2022. Ora per un biglietto verde servono un euro e tre centesimi, un anno fa ne occorrevano uno e 12 centesimi, prima delle elezioni americane ancora un euro e nove centesimi. Dietro a queste oscillazioni, molto più pesanti di quanto non appaiano, ci sono fattori economici e anche politici, di cui Trump è il principale: il futuro inquilino della Casa Bianca ha annunciato misure protezionistiche che penalizzeranno chi importa in America, e la scelta del falco Bessent per la guida del Tesoro (si veda l’articolo a pagina 19) suona come una conferma evidente di voler passare in fretta dalle parole ai fatti. Fin qui la politica, che sconta un’Europa sempre più marginale in un mondo sempre più chiuso in cui gli Stati Uniti non ci regaleranno nulla. Come conseguenza di tutto questo, ma non solo, c’è un’economia in panne, che fino a qualche settimana fa vedeva soffrire in particolare l’industria. Ora le difficoltà riguardano anche i servizi, e l’ultimo campanello d’allarme in questo caso è suonato venerdì, quando l’indice che misura la fiducia dei direttori acquisti delle aziende europee (l’indice Pmi), è sceso sotto quota 50, indicando così prospettive di contrazione; dietro al balzo indietro c’è proprio il crollo delle aspettative da parte dei manager che operano nel terziario. Quando l’economia pare accartocciarsi, ecco che l’attenzione si sposta sul suo medico per eccellenza, la Banca centrale: e così, proprio venerdì, mentre una nuova cappa di pessimismo sembrava circondare l’Europa, ecco che iniziava a diffondersi tra gli investitori l’auspicio che a dicembre la Bce possa abbassare i tassi non di 25 punti, come previsto finora, ma addirittura di 50. Ridurre i tassi significa ridurre il costo dei prestiti, dare più denaro all’economia: più ossigeno, o più “droga”, a seconda dei punti di vista. Se il medico dovesse in effetti prescrivere una terapia d’urto – un’opzione che sui mercati viene accordata di un 50% di probabilità – sarebbe la conferma che il paziente ne ha bisogno, come peraltro reclamato ancora in settimana dal ministro Tajani, che ha invitato Christine Lagarde ad accelerare sulla discesa dei tassi. Il problema è che alla Bce non serve solo più coraggio, ma anche un’Europa più forte politicamente, che possa così “coprirle le spalle”. Ma qui riparte il solito circolo vizioso, in cui cause ed effetti finiscono per mischiarsi. Paralizzando l’Europa. © riproduzione riservata
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