Cosa vuol dire diventare eterno, io l’ho capito il 17 luglio 1994. Non vorrei sembrare blasfemo, ma insomma certe volte bisogna capirsi. La finale era Italia-Brasile, lo stadio quello di Pasadena, California, e ricordo che in tribuna faceva un caldo cane, figuriamoci in campo. Quando Roberto Baggio ha sparato la palla dell’ultimo rigore due metri sopra la traversa, è lì che ho capito. E in un istante ho realizzato che non c’è salvezza, non c’è rimedio contro l’errore. Non ci sarà mai. Che continuerò a dire la cosa sbagliata al momento sbagliato, a non fare l’unica cosa che dovrei fare, a imboccare quel senso unico pur sapendo che sarei andato contromano, a restare seduto quando dovevo alzarmi, ad aver paura sempre della stessa cosa anche quando mi ero convinto a non temerla più, a mangiare
i funghi anche se sono allergico. Non c’è niente da fare. Se Baggio tira alle stelle un rigore e ci condanna alla sconfitta, proprio lui, dopo aver giocato un Mondiale da favola, perché uno qualunque come me non dovrebbe sbagliare? Puoi applicarti, studiare, comportarti bene. Ma poi è lì, due metri sopra la traversa che il pallone finisce. L’errore annulla il passato, azzera il tempo. Ecco cosa riesce a spiegarti il calcio. Che quando sbagli, nel preciso istante in cui lo hai fatto, diventi eterno. Roberto Baggio quel giorno lo è diventato. E nel mio piccolo, io pure.
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