Se ha almeno cinque sillabe è di sicuro una parolaccia, a prescindere. Cinque sono decisamente troppe, ti lasciano senza fiato e l'appeal si scioglie e disperde dalla terza sillaba in poi. Dev'essere questa la ragione del triste destino di discernimento, una parolina dolce, nutriente, anche se dura da masticare e soprattutto, per certuni, da digerire. Discernimento non è maneggevole, a cominciare dai titoli di giornale. Calciatori e politici li puoi abbreviare: Ibra, Dibba... Ma discernimento no. Discernimento è meglio lasciarlo nella pancia di documenti, conferenze, inviti ed esortazioni a cui dedicare un applauso di circostanza. E consegnare all'oblio.
Discernimento può voler dire molte cose, in base al contesto. In ambito religioso, ad esempio, è abbreviazione (!) di discernimento spirituale, in cui sant'Ignazio di Loyola e altri ci hanno donato pagine preziose, che a loro volta han generato migliaia di altre pagine preziose che non ci passa per l'anticamera del cervello di riassumere in poche righe. Diciamo solo che si tratta di indagare sulla nostra strada, sulla presenza di Dio nella nostra vita, sulle scelte da compiere per essere felici. Richiede allenamento assiduo e saggia compagnia.
Più banalmente, quello che manca oggi ai credenti, deboli e forti, è il discernimento di fronte ai fatti della vita, personale e collettiva, familiare e associativa, lavorativa ed ecclesiale. Con estrema semplicità, saper discernere è saper guardare, giudicare e, infine, agire. Guardare con occhi acuti, dietro gli angoli; e ascoltare, con orecchio fino, i sussurri e le grida della storia. Giudicare non significa emettere una sentenza, ma indagare ed esprimere un parere assennato, figlio di attento discernimento. Agire significa, se necessario e opportuno, assumere adeguate iniziative, operare cambiamenti, perfino fare rivoluzioni.
È palese che oggi il pensare è sconsigliato e fuori moda. Chi pensa è additato come pericoloso intellettuale. Chi pensa e discerne, anche soltanto al supermercato, non agisce (acquista, consuma) in balia dell'istinto, delle sollecitazioni dell'advertising, di ciò che gli frulla in pancia. Anche quando si va a votare, meglio pensare meno possibile; difatti le fazioni in lotta, tranne lodevoli eccezioni (condannate a una nobile sconfitta), forniscono meno elementi possibili su cui riflettere. Quando il cittadino va alle urne, perlopiù si comporta come quando va a fare gli acquisti: sceglie il brand che procura piacere e va premiato, scarta il brand detestato da punire.
E il discernimento? E pensare che nel giurassico 1995, al Convegno ecclesiale di Palermo, di fronte all'ineluttabile divisione politica dei cattolici, veniva chiesta la creazione di «luoghi di discernimento comunitario», dove confrontarsi, tra e da fratelli, prima di compiere scelte diverse, diversità che però non poteva né doveva incrinare l'unità nella fede. Tranne lodevoli eccezioni, chi ha mai visto quei "luoghi"?
Più che discernere, per alcuni fratelli cattolici, bisogna obbedire. Non occorre pensare e valutare, poiché tutto è già stato pensato e il resto è "psicologismo e sociologismo". Soprattutto, per discernere, devi voler bene: al mondo e alle persone, per quanto irritanti, fastidiosi, aggressivi. Voler bene al tempo in cui siamo stati chiamati a vivere, non averne il terrore. Amare, perché solo chi ama può sperare di poter discernere. Ha scritto il poeta libanese Mikha'il Nu'ayma: «La fede che nasce su un'onda di paura non è altro che la schiuma della paura: essa s'alza e s'abbassa con la paura. La vera fede non sboccia che sullo stelo dell'amore. Il suo frutto è il discernimento».
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