La società che fisicamente vediamo ogni giorno intorno a noi forse la troviamo ovvia e normale, forse inevitabile e incorreggibile, o magari eccitante e confortante. L'abitudine rende distratti, l'impotenza a cambiare le cose rende indifferenti. Ma fermiamoci agli esseri umani, alla folla urbana. Che cosa vediamo? Nelle strade e nelle piazze, in tutti i luoghi e mezzi pubblici, a testa china come se pregassero e impugnassero un talismano, nove persone su dieci stanno usando o aspettano di usare un cellulare, uno smartphone, un computer. Persone intente, sprofondate a fissare uno schermo digitando su minuscole tastiere, con una velocità e destrezza manuale mai viste prima. Ora (se abbiamo l'età sufficiente per farlo) facciamo un piccolo sforzo di immaginazione e pensiamo all'impressione che ci avrebbe fatto un tale spettacolo ubiquo e interminabile qualche decennio fa: per esempio in un anno negativamente proverbiale come il 1984, l'anno che il povero George Orwell, nel 1948, scelse con angoscia per collocare la sua futura, agghiacciante antiutopia sociale e politica. Che cosa avremmo pensato? Ci sarebbero venuti in mente per esempio i titoli di alcuni famosi studi sociologici: La folla solitaria di Riesman, I persuasori occulti di Packard, Fuga dalla libertà di Fromm, L'uomo a una dimensione di Marcuse e forse La servitù volontaria, un saggio scritto quattro secoli prima da Etienne de la Boétie, carissimo amico di Montaigne. Sarebbe cioè stato difficile non pensare a qualcosa come a un'alienazione collettiva che isolava in massa gli individui dal loro qui e ora, per sempre fissi su un simultaneo altrove. Come si può credere che esista una realtà da migliorare, su cui intervenire, se si vive occhi e testa in una socialità non presente, non prossima, ma remota? C'è qualcuno, anche un solo individuo su dieci o cento, che sia in grado di decidere, anche solo per scommessa, di sospendere per un solo giorno la propria dipendenza digitale, oculare, uditiva e mentale? Esiste ancora una tale libertà, che ognuno si illude di avere e non ha più da tempo senza neppure accorgersene? Si rende conto questa folla solitaria, asceticamente devota a un aggeggio tecnico come a un oggetto sacro, che in realtà potrebbe, se soltanto volesse, avere fra le sue mani un enorme potere sia reale che simbolico, il potere di sospendere lo strapotere planetario di questo automatismo? Il funzionamento automatico, senza controllo perché troppo veloce, della Macchina Mondiale che crediamo di usare e che ci usa, ci permette ancora di essere, di crederci liberi?
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