Le rielaborazioni narrative di Gesù Cristo sono state numerose nei secoli. Una delle ultime, sagace per alcune intuizioni, talvolta discutibile per altre, è quella di Giuseppe Calaciura nel suo Io sono Gesù (Sellerio). Una delle immaginazioni narrative più felici dello scrittore siciliano è quando colloca l’adolescente figlio di Maria nel Tempio di Gerusalemme, in un incontro con i miserabili che affollavano l’entrata dello spazio sacro: «Mentre uscivo dal Tempio uno degli storpi che avevo imparato a conoscere mi chiamò. Pensai di fuggire, far finta di non averlo sentito, di correre per arrivare in tempo. Invece mi fermai, lo raggiunsi. Mi chiese se potevo raggiungere la fonte dell’acqua per riempire la brocca. L’accontentai. Mentre lo aiutavo a bere, il nano senza braccia che gli stava di fronte mi chiese il favore di spostare la tenda che correva alta sulle corde a proteggere dal sole quel nido di dolore all’ingresso del Tempio. La spostai. Il popolo dei miserabili si svegliò. Ciascuno dal suo giaciglio mi faceva un cenno, avanzava una necessità, una richiesta, mi invitava a raggiungerlo. Molti non avevano preghiere, che almeno ascoltassi il loro lamento, alcuni volevano solo guardarmi negli occhi: il ragazzo che non fuggiva. A tutti offrivo occhi e orecchie, per tutti mi adoperai mentre il tempo a disposizione era ormai finito». Non fuggire davanti alla sofferenza: che bella sarebbe questa definizione del cristiano oggi!
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