In Parlamento – un posto dove non mi è mai capitato di metter piede – si prepara una mostra di Carlo Levi e un incontro per celebrare la fondazione cinquant'anni fa della Filef, Federazione italiana lavoratori emigrati e famiglie, che fu proprio Levi a fondare con Paolo Cinanni (1916-1988), studioso calabrese dei problemi del mondo contadino e dell'emigrazione. Ho conosciuto entrambi, ma mentre di Levi si sa quasi tutto (recentissima è una bellissima raccolta di pezzi giornalistici sull'Italia che vanno dal 1945 agli anni del boom, Le mille patrie, Donzelli) il secondo è un personaggio meno noto. Una raccolta di suoi scritti edita da Rubbettino, Abitavamo vicino alla stazione (pagine 304, euro 15,00), in parte desunti da un importante saggio del 1968, Emigrazione eimperialismo, mi colpisce per due motivi. Il primo è il confronto tra quel che Cinanni scriveva dei migranti italiani in Europa e la condizione dei migranti extracomunitari nell'Europa, nell'Italia di oggi – il ribaltamento di una storia pur sempre difficilissima e spesso amara – e il secondo la scoperta di uno scritto che non conoscevo, Il maestro e l'antimaestro, nel quale Paolo racconta il suo rapporto con Cesare Pavese. Levi, Pavese, Torino, il Sud, le migrazioni estere e quelle interne… Pavese, come Levi in Lucania, soffrì il confino in Calabria, e si dedicò gratuitamente (dopo, nel '36) a dare ripetizioni di sabato, quando il ragazzo non era in fabbrica, a un giovane operaio calabrese emigrato a Torino, appunto Cinanni, che non voleva rinunciare agli studi. Da quell'esperienza nacque il romanzo Il compagno (1947) dedicato da Pavese al giovane operaio comunista Cinanni. E nacque nel 1970 la rievocazione dell'allievo, che narra un esempio di pedagogia sociale non insolito e che si ripete ancora oggi quando dei giovani “letterati” italiani fanno scuola agli immigrati da altri paesi. Spesso la storia si ripete, e vale la pena di ripercorrerla per capire qualcosa del presente e per dedicarsi, nel presente, a qualcosa che vale. «Per celebrare l'uomo di là dalla sua solitudine», scrisse Pavese, citato da Cinanni. «A Paolo, non più allievo ma maestro», scrisse ancora sulla copia che gli donò delle poesie di Lavorare stanca.
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