A dare retta agli annunci, tutti vogliono combattere le «fake news». Si fanno corsi a scuola e convegni ai massimi livelli, ne discutono politici ed esperti, i giornalisti ne scrivono e ne parlano, e i colossi del web e dei social annunciano «grosse novità».
Se Facebook ha lanciato il suo« decalogo» (ne abbiamo scritto due settimane fa), Google ha appena annunciato un cambiamento nel sistema che sovraintende il servizio di ricerche web più usato al mondo «per contrastare le fake news e chi diffonde odio». L'azienda ha spiegato: «I nostri algoritmi aiutano ad identificare fonti affidabili tra i miliardi e miliardi di pagine del nostro indice. Tuttavia, è risultato evidente che un piccolo insieme di ricerche (circa lo 0,25% del traffico giornaliero) ha restituito risultati con contenuti offensivi o chiaramente ingannevoli».
Penserete: perché Google fa tutto questo se il problema riguarda lo 0,25% di ricerche giornaliere? La prima risposta è che l'0,25% di miliardi di ricerche resta comunque una cifra imponente. La seconda è che Google «deve» farlo. Perché per crescere (e guadagnare) il «motore di ricerca più usato (e più ricco) del mondo» – così come Facebook e qualunque altro "servizio" digitale – deve dare il miglior servizio agli utenti. E in una società dove ormai il «percepito» spesso conta più del «reale», annunciare una lotta alle «fake news» e all'«odio» fa crescere la soddisfazione dell'utente e quindi la reputazione del «marchio». Ma anche e soprattutto il fatturato, visto che grandi aziende hanno ritirato importanti investimenti perché le loro pubblicità finivano in pagine o accanto a video (per esempio di You Tube, di proprietà di Google) ritenuti offensivi e inaccettabili.
Anche Wikipedia varerà a breve un progetto per combattere le «fake news». Si chiama Wikitribune e sarà basato sia su giornalisti pagati sia su una vasta rete di collaboratori volontari: «Vogliamo portare la mentalità di Wikipedia basata sul risconto delle fonti e sul “fact-checking” (il controllo dei fatti - ndr) nel mondo delle news”», ha spiegato a Wired il fondatore di Wikipedia, Jimmy Wales.
Se Facebook, Google e Wikipedia, cioè tre colossi digitali di importanza primaria, decidono di combattere le «fake news», non possiamo non gioirne. La questione però ha anche altri due aspetti importanti. Il primo: come si fa a far arrivare la verità a chi crede nelle «fake news» (per calcolo, convenienza politica, ottusità e quant'altro) e persino davanti a prove inconfutabili continua a credere a ciò che è falso? Il secondo aspetto, ancor più importante: siamo sicuri che vogliamo affidare una larga fetta della «verità» (o almeno della ricerca della verità) e il controllo di ciò che è vero o falso a tre colossi digitali?
Davvero possiamo dormire sonni tranquilli se ci sono tre società (due delle quali hanno come obiettivo dichiarato fare profitti) che di fatto diventano i censori digitali a nome e per conto di tutti? Detta in maniera volutamente provocatoria per mancanza di ulteriore spazio: e se un domani tutte loro (o solo una o due di loro) decidessero che qualcosa di estremamente importante fosse una «notizia falsa» e piano piano la nascondesse alla vista degli utenti digitali?
Il punto centrale, alla fine, è sempre il solito: chi controlla i controllori? E la risposta, mai come in questo caso, deve essere: tutti. Nessuno escluso.
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