Ci sono modifiche alla Costituzione su cui già in partenza è facile immaginare non soltanto un’intesa larga, ma addirittura una sostanziale unanimità di consensi in Parlamento. Per limitarsi a esempi recenti, basti citare quelli relativi al valore della pratica sportiva o al principio d’insularità. Ma quando la materia è – per così dire – contendibile, sembra ormai che il pensiero corra subito al referendum di cui la stessa Carta, all’articolo 138, prevede la possibilità nel caso in cui la riforma non raggiunga nelle Camere la maggioranza dei due terzi. Come se l’iter parlamentare fosse soltanto una fastidiosa perdita di tempo. Sgombriamo subito il campo dal sospetto di un pregiudizio negativo nei confronti dello strumento referendario: la Repubblica è nata in seguito a un referendum, quello del 2 giugno 1946, di cui proprio oggi si festeggia la ricorrenza, e la Carta fondamentale che la Repubblica si è data afferma solennemente sin dal primo articolo che «la sovranità appartiene al popolo». Poi però subito dopo, nello stesso articolo 1, precisa che il popolo esercita tale sovranità «nelle forme e nei limiti della Costituzione». Si tratta di un punto dirimente per distinguere una democrazia vera da una caricatura.
Il referendum ex-art.138 è sicuramente una delle “forme” di esercizio della sovranità popolare. Finora è stato usato poco. Del resto la legge di attuazione è arrivata solo nel 1970, ma anche dopo, nei trent’anni successivi, non si sono avuti riscontri fino al 2001. In quell’anno si votò sulla riforma del titolo V della Costituzione, voluta dal centro-sinistra, con esito confermativo pur in presenza di una partecipazione bassissima (34,1%). Nel 2006 fu invece respinta la “grande riforma” berlusconiana e stessa sorte toccò dieci anni dopo a quella di Renzi. Nel 2020 – ed è il quarto e ultimo precedente – superò il traguardo con successo il taglio dei parlamentari. Sulla natura e sul senso di questo tipo di consultazione nel processo di revisione costituzionale vale quanto argomentato dalla Consulta nella sentenza 496 del 2002: «La decisione è dall’art. 138 rimessa primariamente alla rappresentanza politico-parlamentare», mentre «il popolo interviene… solo come istanza di freno, di conservazione e di garanzia, ovvero di conferma successiva, rispetto ad una volontà parlamentare di revisione già perfetta». Non è quindi un caso che fino al 2001 non si siano tenuti referendum costituzionali. Proprio il mutamento delle dinamiche politico-parlamentari ha creato le condizioni per il ricorso a questo strumento che oggi, rispetto alla fisiologia costituzionale richiamata dalla Corte, appare collegato a un duplice rischio. Da un lato, quello di una torsione in senso plebiscitario, con la stessa maggioranza parlamentare che, dopo aver approvato una legge di riforma, tende a cavalcare o addirittura a promuovere il referendum per massimizzare il risultato politico in termini di consenso. Dall’altro, quello dell’azzeramento della possibilità/necessità di un negoziato tra le forze politiche dei diversi schieramenti per raggiungere un’intesa ampia. Se la maggioranza dei due terzi non è più un obiettivo perché tutto sommato è meglio il referendum, allora che senso ha cercare faticose mediazioni e soluzioni condivise in Parlamento? Spirito costituente cercasi.
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