«C’è un disagio dietro il Fentanyl» Troviamo altri modi per affrontarlo
venerdì 4 aprile 2025
Caro Avvenire, ho letto l’articolo del 28 marzo sulle recenti iniziative del presidente Trump relativamente al Fentanyl. In quanto vecchio medico, sottolineo che, come sovente accade nei procedimenti diagnostici/terapeutici, anche riguardo alle problematiche sociali/politiche delle dipendenze, spesso si fa confusione tra come curare un “sintomo” (in questo caso la disponibilità di Fentanyl) e come curare le “cause dei sintomi”. Ritengo che, da parte di chi ha la responsabilità di una collettività, sia sterile fermarsi alle misure di contenimento della disponibilità di sostanze letali, senza contemporaneamente agire sulle motivazioni di comportamenti perlomeno autolesionisti. Credo sia quindi necessario porsi la seguente domanda: qual è il motivo del disagio di tante persone? Claudio Tozzi Caro dottor Tozzi, lei opportunamente evidenzia, per quanto riguarda le sostanze psicoattive, una distinzione fondamentale tra la lotta allo spaccio e la prevenzione del consumo o l’assistenza a chi è già consumatore abituale. Non dovremmo pensare che l’una sostituisca l’altra, né che sia possibile limitare le gravi conseguenze della diffusione del Fentanyl con la semplice erezione di barriere doganali. Negli Stati Uniti – ne avevo già scritto a fine 2024 – il Fentanyl è una piaga sociale enorme, e si dava atto a Trump di volersene occupare con impegno rinnovato. Per molti aspetti, però, il contrasto alla vendita di questo oppioide, che dà immediata dipendenza e porta spesso alla morte, si è rivelato un alibi per imporre dazi a Canada, Messico e Cina. In sintonia con quanto avviene nel sistema sanitario, la mentalità diffusa in America è che ciascuno sia responsabile di se stesso e non possa pretendere che la società si faccia carico dei suoi problemi. Ovvero: tanto peggio per lui, se qualcuno si riduce a zombie a causa delle droghe. In Europa non è così, sebbene le politiche per affrontare il problema delle dipendenze siano mutate nel tempo e non sempre abbiano ottenuto risultati incoraggianti. Nonostante ciò, il ricorso a diversi tipi di sostanze psicoattive ha visto alternarsi fasi di lungo periodo, associate a tendenze sociali di più ampia portata. Tale constatazione dovrebbe farci riflettere sul fatto che si tratta di un fenomeno complesso, non riducibile a una singola domanda culturale circa il “disagio”. Esistono modalità cosiddette ricreazionali di consumo, che sono piuttosto figlie di un atteggiamento edonistico nei confronti dell’esistenza, così come forme di scelta consapevole per vivere, almeno temporaneamente, in “dimensioni” diverse da quelle che ci sono date, o per provare a sostenere ritmi ogni giorno più incalzanti. A ciascuno di questi consumatori dovremmo offrire un sostegno differenziato, per evitare che si perdano in mondi artificiali dove la realtà viene meno e le relazioni si sbriciolano, mentre si mette a rischio la propria stessa sopravvivenza. Non si tratta di un compito facile, di fronte al cinismo delle organizzazioni criminali, intente a sintetizzare e smerciare sempre nuove molecole, e alla superficialità – forse ancora più scioccante – di singoli che producono e vendono “veleni” con incosciente leggerezza (si veda l’eclatante caso recente di uno studente universitario di chimica arrestato a Novara con un super-laboratorio allestito in casa). Non avremo mai una società senza alcun disagio, ma ciò non significa arrendersi all’invasione del Fentanyl o dei suoi probabili successori. Dare ragioni di speranza – che significa agire nel presente per costruire qualcosa di buono per noi e per gli altri – rimane la via più promettente per curare, come lei giustamente scrive, caro dottor Tozzi, le cause dei sintomi e non soltanto, velleitariamente, i sintomi stessi. È ciò che fanno tante comunità, cattoliche o laiche, nel nostro Paese, cui dobbiamo gratitudine e sostegno attivo, affinché sappiano adeguare le loro attività ai bisogni mutevoli di questi anni. © riproduzione riservata
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