Buoni propositi digitali e l'etica della reciprocità
venerdì 9 agosto 2019

Una delle tante cose indubbiamente positive del tempo delle vacanze è che fa scaturire in noi tanti buoni propositi. Cose anche piccole, tipo: da settembre, farò più sport, mangerò più sano eccetera. A me è capitato di pensare (anche) ai buoni propositi che potrei introdurre nella mia vita digitale. Partirei da qui: avere ancora più riguardo verso gli altri. Per esempio, chiedendomi prima di pubblicare un post su un social o mandare un messaggio: ma davvero ha senso o sto solo abusando del tempo degli altri? Perché anche se gli amici mi vogliono bene, alla ventunesima foto di un bimbo, di un animale o di un tramonto pubblicata in una settimana, è quasi certo che ogni «like» che riceverò sarà per sfinimento e non per interesse o affetto.
Un altro modo per rispettarli è quello di non «taggarli» a caso in un post, solo per sperare di avere più consensi social. Nei post si «taggano» soltanto persone presenti nell'eventuale foto pubblicata o presenti all'evento del quale si parla. Altrimenti, visto che a chi è «taggato» arriva una notifica ad ogni commento o reazione al post, è come strattonare in continuazione una persona per cercare la sua attenzione.

Un'altra cosa che cercherò di non fare è quella di condividere post di articoli, video o quant'altro accompagnandoli soltanto con un «da leggere», «da vedere», «da ascoltare». Perché anche se non era mia (nostra) intenzione, quelle parole non suonano come un consiglio amichevole ma come una sorta di ordine, come se un professore si rivolgesse ai suoi alunni. E nessuno vuole essere trattato così. Infatti, post simili di solito ottengono pochissime reazioni. Lo ripeto: devo (dobbiamo)
avere più rispetto dei nostri amici digitali. Mentre troppo spesso (pur involontariamente) siamo portati a considerarli o una platea che deve applaudire i nostri post (a colpi di like) o persone che in qualche modo dobbiamo «educare». Mi sono anche ripromesso di non pubblicare sui social foto di articoli di giornale. Per due motivi: il primo è perché è una violazione di copyright. E se anche la foto di un articolo dà "peso" al mio post, danneggia economicamente la testata che l'ha pagato e pubblicato. Il secondo motivo è più pratico: molte volte la foto che mettiamo sui social contiene solo una parte dell'articolo e quindi il contenuto è illeggibile (quindi il post che lo contiene è di fatto inutile) e se lo contiene tutto, obbliga gli interessati a zoomare sulle parti dell'articolo e a contorcersi per riuscire a leggerlo.

Ed è proprio questo il punto più importante: i miei amici digitali non sono né il mio pubblico né degli alunni ma persone da rispettare. Anche ricordandosi ogni volta che si scrive che non tutti i miei amici sanno tutto quello che so io. E quindi, se faccio post pubblici e non dedicati ad una cerchia specifica (famiglia, amici del calcetto, della parrocchia eccetera) non devo mai dare niente per scontato. Se faccio un post su un amico o un periodo della mia vita che tanti altri amici necessariamente non conoscono, se non lo spiego, è come se dicessi loro: voi siete esclusi, voi non mi interessate. Voi non contate.
Mi sono anche ripromesso, ogni volta che vedo un post che mi urta, di non commentare sull'onda dell'emotività. Perché a furia di liquidare gli altri come degli «inetti», degli «idioti» o peggio, e a furia di ripeterci che «siamo un mondo che merita l'estinzione» seminiamo ogni giorno solo odio, rassegnazione e rabbia. Che genera solo altro odio, altra rassegnazione e altra rabbia. Voi fate come meglio credete, ma io di fronte a post anche urtanti cercherò di fermarmi a chiedermi: ho il tempo, la voglia, la calma, le parole e il giusto pensiero per ingaggiare un confronto fermo ma civile o voglio soltanto sfogarmi dando vita ad un litigio che non servirà a nessuno?

Perché anche nel digitale vale l'antichissima regola d'oro dell'etica della reciprocità. E cioè: non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. Se preferite: fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te.

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