Mi imbatto per caso nella storia di Maria Simma, un'anima straordinaria che, parlando delle cose ultime, racconta come si dovrebbe vivere il presente. E quanto bisogno c'è di richiamare le cose ultime, viste le notizie di morti improvvise, omicidi e tragedie che imperversano sui nostri schermi! Non posso non pensare a una straordinaria opera di Raffaello Sanzio, del quale, il prossimo 6 aprile 2020, cadrà il cinquecentenario della morte: la Deposizione Borghese.
La sua committenza trae origine da una pagina di cronaca nera che non sfigura affatto di fronte agli intrighi politici dei nostri tempi. Federico Baglioni, nato a Perugia nel 1477, non conobbe mai suo padre. Grifone Baglioni, infatti fu ucciso a Cantiano in quello stesso 1477. Federico fu perciò chiamato Grifonetto in memoria del genitore e crebbe nella certezza d'esser il legittimo erede dell'occulta Signoria di Perugia, occulta perché non ratificata ufficialmente dal Papa e senza piena autonomia di poteri civici. Regnavano su Perugia, grazie ad abili manovre politiche, i cugini del Baglioni. Grifonetto, adulto, sposato con tre figli, aspettò l'occasione propizia per vendicarsi, trovandola in un solenne matrimonio fra cugini. Il 14 luglio 1500 con alcuni compagni mise a tema il delitto: trucidò gli sposi e i rimanenti maschi della casata (Guido e Rodolfo), ma gli sfuggì Giampaolo, il più potente. Grifonetto regnò un sol giorno perché Giampaolo lo sorprese sulla via principale della città e l'uccise. Nel rendere l'anima a Dio tra le braccia di Zenobia, sua moglie, e sotto lo sguardo della madre Atalanta, che aveva apertamente condannato il gesto, Federico si pentì del male fatto. Fu proprio Atalanta più tardi a chiedere, per la cappella di Famiglia, una grande pala al giovane e promettente Raffaello. In un primo tempo l'artista, lo si evince dai disegni, pensò a una deposizione statica. Poi però sollevò il corpo del Cristo e divise il gruppo in due parti dove in mezzo, come uno spartiacque, situò un giovane, ritenuto il ritratto di Grifonetto, nei panni di Giuseppe d'Arimatea o di Nicodemo. Questi, con cipiglio fermo e il vento nei capelli, resta immobile quasi obbligando a prendere una decisione; dietro a lui, le donne (con la Madre), uniche sopravvissute alla tragedia. Atalanta aveva desiderato quest'opera quasi come una solenne riparazione, una sorta di preghiera permanente che trasformasse l'onta in una bellezza capace di intercessione presso l'Altissimo, conoscitore di tutti moti oscuri dell'animo umano, anche quelli del figlio. La fede, e non solo Raffaello d'Urbino, generò quest'opera. La fede di chi vive dentro le tragedie restando ancorato a quell'oltre e a quell'Altro che solo può dare senso alle cose. Ci sarà nelle tragedie dei nostri scandalosi giorni chi, come lei, tiene lo sguardo alto? Forse c'è, ma non se ne parla. A un passo del sepolcro si legge: «Raphael Urbinas MDVII (1507)», una firma discreta proprio dietro allo stelo del tarassaco. Quei leggeri petali pronti a volare nel vento, simboleggiano le nostre vite, fragili, sì, e la storia del Baglioni lo dimostra, ma pronte a cadere in una terra buona dove per la misericordia di Dio potranno risorgere a vita nuova. Ricordarsi dei defunti è la più grande opera di misericordia. Essi hanno bisogno di noi e noi di loro. Guardo con gratitudine a donna Atalanta che non si rassegnò alla tragedia, ma indicò ai suoi e a noi la necessità di capire il presente guardando oltre, verso l'eternità.