Io vorrei abbracciare il medico corso a casa della paziente
sabato 16 marzo 2024

Mezzanotte. In una casa di Fermo una figlia ha la febbre alta, ma dall’ospedale l’hanno dimessa. Suona il citofono. A quest’ora, chi può essere? È un medico del Pronto soccorso, smontato dal servizio, che ha un dubbio in testa, e chiede di rivedere la malata. Le analisi confermeranno: non è influenza, ma una pericolosa infezione al midollo spinale. La ragazza guarirà. Bellissima storia, che fa la sua comparsa sul web mercoledì, una notizia in mezzo ad altre. Ma in poche ore diventa il secondo titolo, prima ancora di Macron che avverte l’Europa sull’Ucraina: «Teniamoci pronti». Bella storia davvero, quella del dottore marchigiano, 70 anni, in età da pensione ma ancora in servizio, che invece di andare a casa, dopo 8 ore di turno, ha seguito il suo istinto, ed è tornato da una paziente. Se in tanti però si sono innamorati di questo medico con i capelli bianchi, una ragione dev’esserci: e forse è che vorrebbero averlo loro, un medico così. Sui medici in questi anni si è detto tanto: al tempo del Covid erano eroi, e davvero in non pochi in corsia hanno lasciato la vita. Poi l’andare in pensione dei più anziani ha messo allo scoperto la grave carenza di professionisti, così come di paramedici, nel Servizio sanitario, e più ancora nei Pronto soccorso.

Non accadeva, pochi anni fa, in Lombardia, di restare in barella in un corridoio, con numerose fratture costali e versamento pleurico, per 48 ore senza mangiare, bere o potersi lavare: in un grande famoso ospedale di Milano. Allora capita anche che dopo molte ore di attesa i parenti alzino la voce, e talvolta purtroppo non solo quella. Sacrosanto il decreto che tutela la sicurezza dei sanitari, non fosse che non ci si è fatta una domanda: come mai gli italiani nei Pronto soccorso sono diventati così aggressivi? Non sarà che, a monte, qualcosa non funziona? Onore al merito di quanti, e spesso giovanissimi, restano in prima linea. Ma il paziente di una certa età sa che qualcosa di fondo, nel rapporto con i medici, è cambiato. Al di là anche delle urgenze, e fino negli ambulatori di base. Qualcosa è cambiato, fra i medici e noi. Gli ultrasettantenni, con tutte le ovvie eccezioni, prima di tutto ti auscultavano cuore, respiro, e “dica 33”; attenti a colorito, tremiti, andatura, al paziente come a un tutto indivisibile. I giovani frequentemente, se non hanno avuto un buon maestro, fanno qualche domanda, non necessariamente toccano il malato, e poi procedono zelantemente per protocolli, cioè per schemi che dovrebbero adattarsi ad ogni soggetto. I medici di vecchia scuola erano artigiani su quel singolo uomo; oggi ci capita spesso di sentirci congegni uguali, su una catena di montaggio.

Così, se un medico di 70 anni una notte, preso da un sospetto che gli toglie il sonno, va a cercare a casa una paziente, non solo ci si meraviglia, ma chi legge, commosso, quel medico lo abbraccerebbe. Perché è questo che vorremmo in loro, lo sguardo vigile su ogni segno, la ragione aperta a ogni ipotesi su quell’uomo, che è unico. Questo vorremmo – se su quel letto ci fosse nostro figlio, almeno.

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