Alla fine sui rider si è accesa anche l’attenzione della magistratura. La Procura di Milano ha infatti aperto un’indagine conoscitiva a tutto tondo sui ciclofattorini. Con un triplice obiettivo: verificare le condizioni di sicurezza del lavoro nelle quali si trovano a operare; controllare non tanto la natura – subordinata o autonoma – del rapporto instaurato con le piattaforme elettroniche, ma anzitutto la sua regolarità; infine esaminare l’incidenza della loro attività sugli incidenti stradali per tutelare la salute dei rider stessi, ma non meno quella di automobilisti e pedoni che si trovano a dover fare i conti con i loro slalom nel traffico cittadino.
Uno spettro d’indagine davvero ampio, quello della Procura milanese, che dà la misura delle molteplici sfaccettature del fenomeno, figlio tipico della gig economy, l’economia dei lavoretti. Ma che, purtroppo, certifica anche il ritardo della politica e delle relazioni industriali nel ricondurre questa attività dall’attuale giungla in cui un impersonale algoritmo governa persone mal pagate, a un recinto sicuro di tutele minime e di normale contrattazione dei salari e delle condizioni di lavoro. La prossima settimana, infatti, approderà finalmente in Senato il decreto sui rider messo a punto dal precedente governo dopo un confronto di un anno. Con previsioni ancora confuse e incerte sulla natura del rapporto di lavoro e che soprattutto non ha trovato un consenso unanime fra i diversi attori sociali interessati alla questione. In particolare, proprio fra quella porzione di ciclofattorini che ha dato vita alle prime proteste, autorganizzandosi e dimostrando una volta ancora la distanza e la diffidenza di una parte del mondo giovanile rispetto all’attività dei sindacati tradizionali.
Ma se le confederazioni, le associazioni datoriali e la politica faticano a dare risposte immediate ai problemi sollevati dallo sviluppo tecnologico, occorre interrogarsi anche sulla nostra percezione delle nuove attività, sul loro grado di accettabilità per noi, in definitiva sulla nostra responsabilità di cittadini e di consum-attori. Perché noi clienti non possiamo ritenerci estranei a un meccanismo economico e di consumo che produce anche le asimmetrie e i nuovi rischi di sfruttamento che vediamo emergere. Non si tratta di fare i moralisti a ogni costo o di ingigantire i problemi. Quella del rider è certamente un’occasione di lavoro accessibile a tanti giovani e a molti stranieri. Attraverso lo sviluppo delle piattaforme digitali si è potuto così garantire una possibilità di guadagno a migliaia di disoccupati e studenti part-time. E insieme far crescere un mercato – quello del cibo a domicilio – che in precedenza era limitato alle pizzerie di quartiere.
Il volto di tendenza, easy e luminoso del fenomeno non deve però accecarci e renderci invisibile la sua faccia oscura, fatta di ritorno al cottimo, di una eterodirezione affidata a sconosciuti algoritmi, di discriminazioni, di mancanza di libertà sindacale. Soprattutto di un’organizzazione del lavoro che spinge a mettere a rischio la propria sicurezza e salute.
Quando, in una serata piovosa, si preferisce non uscire e col telefonino si ordina un hamburger di "quella steak house così buona" o il sushi del "giapponese in centro" occorrerebbe provare a interrogarsi sul costo reale delle proprie scelte. Che non è il prezzo della consumazione, ma quello ben più caro di tutto ciò che gravita intorno al moderno sistema di preparazione e consegna del cibo. Non solo per capire se davvero val la pena di incrementare questa tipologia di consumo "a distanza". Ma soprattutto per chiarire a noi stessi dove poniamo il nostro limite: quale trattamento dei lavoratori siamo disposti ad accettare, quando si tratta degli altri e non di noi? Se pensiamo che tutto sia regolare e positivo, buon appetito e buon pro ci faccia. Se invece consideriamo sfruttamento le basse remunerazioni, la mancanza di tutele minime, se riteniamo pericolosa un’organizzazione del lavoro che spinge a rischiare la vita sulle strade tanto da far muovere una Procura, la nostra scelta non può che essere rinunciare all’hamburger o al sushi consegnato a domicilio. Almeno fin tanto che le compagnie di distribuzione non tratteranno in modo adeguato i loro dipendenti/collaboratori. Lo sciopero, questa volta, potremmo cominciarlo noi. Anche seduti a tavola.